Con un paio di occhiali e la barba incanutita, a far dimenticare i giorni in cui scorrazzava impunito sulla Balbea a cavallo di una moto color oro (ci capitò di vederlo un paio di volte, in quel di Tripoli, e sembrava un vitellone appena sceso in trasferta da Rimini), Saif al-Islam si è presentato in pubblico nella posa e nei vestiti di suo padre. Sarà difficile scambiare l’uno per l’altro, perché quando Mohammar Gheddafi si mise a fare il golpista, nel 1969, aveva un’altra età e soprattutto un altro fascino.
Saif sta compiendo il giro al contrario: Mohammar era un nessuno, e diventò qualcuno; lui era qualcuno, è stato peggio che nessuno, ora tenta di risalire dalla polvere. Chissà se ci riuscirà, ma l’occasione gli si presenta invitante: le elezioni che adesso le potenze regionali e non vogliono far celebrare a ridosso del Natale, tanto i cristiani in Libia sono sì e no poche centinaia.
A decidere per la consultazione, a Parigi qualche settimana fa, c’erano i rappresentanti di Francia, Italia, Germania, Onu e Stati Uniti. Brillavano le assenze: Turchia e Russia, che poi sono i due paesi che più a fondo sono penetrati in Libia dalla morte del Colonnello. Il dettaglio la dice lunga: Europa e Occidente cercano di tornare all’influenza che penetravano su Tripolitania e Cirenaica fino a quando quell’avventato di Sarkozy trascinò la Nato in una guerra da cui sperava di uscire con un’area di controllo regionale che lo compensasse delle perdite in Tunisia. A onor del vero era in buona compagnia: si leggano gli interventi di Giorgio Napolitano in Italia e si soppesino le decisioni prese allora da Palazzo Chigi. Non fu un momento aureo per la nostra politica estera.
Ad ogni modo, acqua passata: ora si tratta di riportare pace e stabilità – unità sarebbe troppo osare – in un Paese che un Paese non è, ma solo un insieme di tribù dietro a una bandiera. Consola vedere che il metodo scelto è esattamente il contrario di quello adottato nel 2011 da Sarkozy e dai suoi caccia, come anche da George W. Bush in Iraq nel 2003. Qualcosa forse lo abbiamo imparato ed ora facciamo fare le elezioni per poi trovare un accordo, laddove prima mandavamo le truppe di terra per poi far avallare gli accordi, da noi imposti, attraverso le elezioni. Anche le democrazie qualche volta maturano.
L’incognita (e il particolar e la dice tutta sulla fragilità dell’intesa) è sempre quella del Generale Haftar: dietro di lui ci sono da sempre russi e turchi, ma anche qualche potenza locale e persino qualche europeo ben nascosto. Ha annunciato che anche lui si candiderà; sarà bello vedere se all’indomani dello spoglio lo sconfitto accetterà il risultato. Perché questo è il vero dilemma della Libia: si dovrà esprimere secondo le regole di un gioco, quello democratico, che non ha ancora fatto suo dal punto di vista culturale. È come pretendere di parlare una lingua straniera avendo letto una sola volta, e sbrigativamente, un manuale di grammatica.
Questo significa due cose. La prima: non è per nulla detto che la prossima primavera porti la pace. La seconda: anche se così fosse, l’Occidente dovrà continuare a seguire da vicino la crisi passo dopo passo. Non basterà proclamare il risultato per poter lavarsi le mani di quello che accade lungo la Sirte. Se non altro perché da lì continua a passare la rotta dei disperati. Non è solo una faccenda di combustibili fossili.