“Immuni” anche sotto il profilo della privacy?

La poca trasparenza e la ridotta chiarezza non sono certo il miglior fertilizzante di una iniziativa che si prefigge l’obiettivo di monitorare la situazione. L’atmosfera, che si è venuta a creare attorno alla famosa “app” che dovrebbe coadiuvare le attività a contrasto della diffusione del coronavirus, non incentiva nessuno ad aderire ad una operazione che secondo molti potrebbe avere pesanti riverberazioni negative sulla riservatezza delle nostre informazioni personali. L’applicazione informatica destinata ad essere installata sugli smartphone degli italiani ha contorni poco definiti, forse complice una certa complessità difficile da spiegare a chi non abbia adeguate competenze tecnologiche e quindi si trovi in difficoltà ogni volta che si debba affrontare un discorso complicato per sua stessa natura.

Il programma software in questione è mirato a “mappare” le persone con positività al COVID-19 e a ricostruire la cronologia di contatti più o meno stretti con altri soggetti che – potenzialmente destinatari del contagio – devono essere avvisati del rischio di essersi avvicinati a qualcuno portatore di coronavirus.

Un segnale a bassa intensità del sistema Bluetooth (normalmente utilizzato per collegare auricolari senza fili o per scambiare file con dispositivi nelle vicinanze) viene irradiato in un raggio di pochi metri e ricevuto/memorizzato da altri telefoni poco distanti. Ogni apparato, in pratica, registra cronologicamente gli identificativi degli smarphone delle persone cui l’utente si è avvicinato. Se una persona – sottoposta ai necessari accertamenti – risulta positiva al virus, l’esame del suo cellulare permette di vedere quali analoghi apparati si siano trovati in sua prossimità e quindi quali persone potrebbero aver subito il contagio. La decodifica di tali codici immagazzinati nel tempo dovrebbe consentire di risalire ai proprietari degli altri telefoni, così da avvertirli dell’eventuale rischio di infezione e invitarli a sottoporsi a controllo medico e ad adottare ogni iniziativa prevista dai protocolli sanitari attualmente in uso.

Per procedere con efficacia sarebbe necessario il collegamento ad un sistema centrale (naturalmente in mani pubbliche e blindato in maniera imperforabile) in cui sono depositate le anagrafiche corrispondenti al codice identificativo di ciascuno smartphone su cui è stata installata la “app”. Gli archivi elettronici hanno un senso se sono completi, aggiornati e – nella fattispecie – relativi a tutta la popolazione, perché non si ammalano di coronavirus solo le persone in possesso di uno smartphone e di una connessione ad Internet (senza la quale non si può scaricare la “app”…).

Il primo punto debole del sistema, ritenuto la panacea per contrastare il contagio, sta proprio nel fatto che non tutti gli italiani possiedono un “telefono intelligente”. Seconda debolezza sta nella volontarietà ad installare la “app”. Non c’è bisogno di un master al Massachussets Institute of Technology per capire che il numero delle persone da monitorare si riduce per la mancanza di dispositivi (si pensi a persone anziane, meno abbienti o semplicemente disinteressate ad averne un esemplare) e per la non avvenuta installazione da parte di tanti che sceglieranno di non attivare un simile programma.

Forti (e giustificate) critiche sono emerse per le legittime preoccupazioni dei cittadini che vorrebbero sapere quali dati vengono effettivamente “trattati”, dove finiscano le informazioni raccolte, chi sia incaricato di occuparsene, per quanto tempo saranno conservate le schede di ciascuno, quali garanzie di effettiva cancellazione possono essere fornite (visto che l’immaterialità dei file ne permette l’invisibile duplicazione all’infinito). I più esperti di queste cose si pongono anche altri quesiti, ragionevoli e comprensibili nonostante i promotori dell’iniziativa e gli assegnatari della pur gratuita commessa abbiano ritenuto aggressivi e disfattisti certi commenti “non allineati”. La prima domanda che chi “smanetta” con programmi e applicazioni si pone è “cosa fa davvero la app IMMUNI?”.

Sappiamo bene che le “app” hanno una certa vivacità e ce ne accorgiamo quando le installiamo: vengono chieste autorizzazioni ad accedere al contenuto dello smartphone, quasi il frugare nelle nostre “tasche” fosse una concessione dovuta e indispensabile per fruire di un certo programma. L’applicazione è gratuita (come in questo caso) ma un prezzo bisogna pur pagarlo. Questo prezzo è la nostra riservatezza delle nostre informazioni e la tutela dei nostri piccoli segreti. A parte il saccheggio che avviene con la complicità dell’utente, l’invadenza di certe app spesso va ben oltre il “prego, entri pure” che inconsapevolmente l’utente ha dichiarato con qualche pressione del polpastrello sui troppi “Ok” sul display dello smartphone.

Correttezza vorrebbe che le istruzioni operative della applicazione fossero pubbliche e quindi accessibili a chi intenda “smontarle” per sapere davvero cosa fanno e quali eventuali azioni siano da evitare. Il cosiddetto “codice sorgente” non è disponibile, anche perché si continua a parlare di variazioni e correzioni di rotta. Ma se ci sono tutte queste evoluzioni, è stata forse scelta una “app” ancora non ultimata o comunque in via di perfezionamento? Purtroppo non è dato sapere perché sia stata scelta IMMUNI e non un’altra. I verbali di valutazione al momento non sono stati pubblicati.

Non è finita. L’ordinanza del Commissario Straordinario Domenico Arcuri parla di acquisizione della “app” a titolo gratuito, ma anche – sempre a titolo non oneroso – di appalto di servizio, lasciando intendere (spero tanto di sbagliarmi) che la gestione dei dati sarà incombenza in mano a soggetti privati.

Le informazioni sanitarie non sono appetibili – come si sarebbe portati a pensare – solo per l’industria farmaceutica. Interessano alle compagnie assicurative per le loro polizze vita, alle banche che preferiscono concedere un prestito solo a chi ha davanti a sé anni sufficienti per restituire con interessi la somma, alla rete dell’ospedalità privata, ai laboratori clinici di analisi e diagnosi, e così a seguire.

I dati sulla nostra salute possono dividere la popolazione in cittadini di serie A e in sfortunati di serie B con meno diritti (invece che meritevoli di maggior protezione e cura). Non è questione solo di privacy, ma addirittura di democrazia.