Il dramma storico del Covid, tra Europa e sovranità

Sconfitta sul piano politico, la destra ha provato di metterla in caciara. E il 2 giugno  Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno occupato le piazze e le vie della Capitale. Per più di due mesi gli italiani hanno dovuto osservare il ‘’distanziamento sociale’’; ai nonni è stato proibito di vedere i nipoti, sono stati chiusi i parchi pubblici, i runner venivano additati al biasimo popolare come se fossero dei seminatori di virus. Le chiese erano chiuse, i matrimoni sconsigliati, le cerimonie religiose vietate salvo che non si svolgessero segretamente nelle Catacombe.

Le forze dell’ordine si sono arrogate il diritto di ispezionare la borsa della spesa quotidiana per vedere se gli acquisti corrispondessero a generi di prima necessità. La salute pubblica è stata difesa dall’Esercito in armi, mentre droni ed elicotteri incombevano sulle città per segnalare, alle pattuglie appostate in angoli strategici, la presenza di assembramenti. La mascherina è diventata il distintivo del partito unico che governava l’Italia. Tutte le sere, dopo il bollettino di guerra sul Covid-19, le tv tiravano le somme delle contravvenzioni e delle denunce fatte in quel giorno, suscitando lo sdegno dell’opinione pubblica verso quei genitori che mandavano la figlia a prendere il latte consentendole così l’opportunità di incontrare (e magari di baciare) il fidanzatino benché non fosse neppure un ‘’congiunto’’.

Essendo priva di argomenti politici per giustificare una manifestazione di protesta, alla destra sovranpopulista non restava altro da fare se non chiamare il popolino a violare tutte le regole (spesso assurde) che gli erano state imposte. Non è facile usare i soliti apprezzamenti contro l’Europa matrigna quando le istituzioni dell’Unione europea, un po’ alla volta (occorre pur sempre mettere d’accordo 27 governi) hanno predisposto un quadro finanziario  che, tra l’intervento della Bce nell’acquisto dei titoli di Stato, il Mes sanitario, il fondo Bei, il Sure e da ultimo il Next Generation Europe (già Recovery fund) arriva a 2,4mila miliardi nell’ambito di un bilancio pluriennale (2020-2027). Queste misure – di profilo strutturale e di lungo periodo – si aggiungono ad un radicale allentamento delle regole per quanto riguarda l’indebitamento e il debito (quello italiano è destinato a crescere di almeno 20 punti di Pil), gli aiuti di Stato e la possibilità di impiegare le risorse dei fondi strutturali senza dover aggiungere la quota di cofinanziamento.

Per quanto riguarda l’ultima proposta della Commissione al Consiglio si tratta di un ammontare di 750 miliardi, di cui 500 a fondo perduto (greants) alle regioni e ai settori più colpiti dall’impatto economico del coronavirus, e 250 come prestiti (loans) a tassi molto ridotti. La quota di fondi per l’Italia dovrebbe essere (arrotondiamo gli importi) di 172 miliardi di euro, di cui 82 miliardi versati come aiuti a fondo perduto e 91 miliardi come prestiti. Per il Vecchio continente si aprono possibilità inedite, ma nello stesso tempo un Paese non può pretendere di entrare in questo nuovo circuito senza farsi carico del salto di qualità che l’Unione ha compiuto con questa operazione e senza accettare la prospettiva di una crescente integrazione che è sottesa al comune impegno finanziario, rivolto prioritariamente ai Paesi in maggiore difficoltà.

Non è un caso che l’operazione non sia condivisa dai Paesi (alleati di Salvini) che si sentono in grado di fare da soli e non vogliono aiutare gli altri. Ecco perché, sentendosi mancare il terreno sotto i piedi, i sovranisti di casa nostra non sanno più dove attaccarsi e rimangono paralizzati nella contraddizione tra la pretesa di maggior numero di risorse a fondo perduto e il rifiuto di qualsiasi condizione, col pretesto di tutelare la sovranità dell’Italia (intanto i ‘’pappalardi’’ provano ad avvalersi degli argomenti ‘’rozzi’’ che Salvini e Meloni coltivano surrettiziamente: l’uscita dall’Unione e dall’euro, il ripristino della lira in modo da poter stampare tante banconote  da tappezzare a buon mercato persino le pareti di casa). In sostanza lor signori (e signore) chiedono più soldi da impiegare al libitum, senza impegnarsi a fare le riforme che il duo Macron-Merkel vorrebbe imporci. ‘’Dalli alle condizionalità’’; da noi va tutto bene.

Mi sono ricordato, in questi giorni, del dibattito che accompagnò l’adozione del Piano Marshall nel 1947. Gli Usa stanziarono quelle risorse (in tutto 13 miliardi di dollari che allora erano una cifra enorme) per la ricostruzione dell’Europa dopo la Seconda Guerra mondiale, mettendole a disposizione di tutti i Paesi, inclusi quelle dell’area che a Yalta era stata assegnata all’influenza dell’Urss (allora i comunisti non avevano ancora preso il potere negli Stati satelliti, ma governavano sia pure in condizioni di egemonia con altri partiti). Nell’Europa dell’Est e nella stessa Unione sovietica ci fu un dibattito sull’accettare o meno la partecipazione al Piano, fino a quando non si decise di rifiutarlo per ragioni politiche e di farlo contrastare dai partiti comunisti dei Paesi dell’area occidentale. Il processo è bene descritto nel verbale di un colloquio tra Stalin e Maurice Thorez, il leader del Pcf di allora. ‘’I comunisti sono a favore di prestiti – diceva il Piccolo Padre – purchè  non tocchino la sovranità del Paese e sono contrari a condizioni soggioganti che danneggino l’indipendenza francese. Ecco come i comunisti – concludeva Stalin – devono presentare il problema’’. Come si vede, siamo in presenza, oggi in Italia, di una di quelle circostanze in cui le tragedie della storia si ripetono sotto forma di farsa. E i personaggi tragici si travestono da guitti.