Giornata degli stati vegetativi: il malato va visto come una persona, non come costo

Persone che a causa di eventi traumatici o patologie sono nella totale incapacità di provvedere a sé stesse ma che allo stesso tempo respirano autonomamente, non sono morenti né tanto meno in una fase terminale della vita. Oltre 4000 italiani vivono in queste condizioni, i più fortunati sono curati in strutture specialistiche e contornati dall’amore dei famigliari, altri vivono dimenticati nei reparti di residenze a lunga degenza.

Secondo la cultura mortifera e utilitaristica dei nostri tempi si tratta di vite che non sono degne di essere vissute, un peso per la società. La Giornata degli Stati Vegetativi fu istituita nel 2010 dal Ministero della Salute e celebrata per la prima volta il 9 febbraio dell’anno successivo proprio per promuovere la cura e l’accompagnamento dignitoso di queste persone, sull’onda del caso di Eluana Englaro morta dopo il distacco dei supporti per idratazione e alimentazione il 9 febbraio del 2009.

In questo ultimo decennio sono sorti molti centri per la cura e la riabilitazione e sono stati adottati protocolli che hanno portato ad evoluzioni e miglioramenti evidenti per tante persone in stato vegetativo e di minima coscienza, fino ad arrivare possibili risvegli. A tal proposito, vale la pena ricordare anche che le persone in stato vegetativo o di minima coscienza spesso vedono, sentono ma non possono comunicare.

Tuttavia la speranza portata dal progresso scientifico è stata accompagnata da spinte eutanasiche. In tutto il mondo Occidentale ci sono state iniziative legislative per aprire ancora di più all’eutanasia attiva e al suicidio assistito (Portogallo, Spagna, Nuova Zelanda, Olanda, ecc…). La direzione presa su questo piano inclinato non ha risparmiato l’Italia e nel dicembre del 2017 la maggioranza che sosteneva il governo Gentiloni ha approvato le legge sul testamento biologico e le Dat (disposizioni anticipate di trattamento) che introducono la possibilità di rifiutare alimentazione e idratazione, così come altre cure mediche, anche per pazienti stabilizzati e non in fase terminale.

La normativa fu spacciata come una legge di civiltà richiesta dal Paese, il fatto che due anni dopo (ultimi dati del 2019) la sua entrata in vigore appena lo 0,7% degli italiani avesse redatto una dat dimostra che è una narrazione sbagliata ed ideologica. Gli italiani vogliono essere messi nelle condizioni di scegliere per la vita e non per la morte; vogliono essere curati da specialisti e la vicinanza umana di parenti e amici. Solo la disperazione e la stanchezza di pesi troppo grandi da portare in solitudine portano ai viaggi della morte verso la Svizzera.

Di fatto in Italia non esiste alcuna emergenza legata all’accanimento terapeutico. Basta avere un po’ di onestà intellettuale e di contezza del settore sanitario per riconoscere che nel nostro Paese non ci sono maree di malati terminali e anziani che reclamano di morire in santa pace ma che non possono farlo perché tormentati da uno Stato che si ostina a tenerli in vita e curarli con il massimo dello sforzo. Questo può essere confermato da qualsiasi medico che frequenta ogni giorno le corsie degli ospedali. Anzi ad oggi esiste esattamente il rischio contrario, cioè quello di una lenta deriva verso l’abbandono terapeutico. In tempi di crisi tutti i direttori di dipartimento e di istituto devono infatti sottostare a rigidi monitoraggi produttivi e sulle spese, e le necessità di risparmio portano a mettere fuori gioco i soggetti più deboli e abbandonati dalle famiglie. Tendenza che è stata accelerata con la pandemia del Covid 19.

In questa cornice medici, famiglie e volontari cattolici sono chiamati ad essere dei fari di speranza, a dare risposte che non siano soltanto sanitarie ma che abbracciano anche l’ambito psicologico e spirituale e il contatto di mediazione nei confronti dei parenti. Questa giornata ci aiuta a ricordare la centralità dell’individuo che va visto come una persona e non come un costo e a capire che anche i soggetti inguaribili non sono mai incurabili. Solo con questa consapevolezza potremo chiedere alle istituzioni protocolli sicuri e strutture all’altezza in ogni regione italiana per tutte quelle persone che escono da un coma e intraprendono il lungo percorso dello stato vegetativo.