Gender pay gap: ecco le cause

L'ultimo Rapporto Mondiale sui Salari dell’OIL, riferito al 2017, rileva un divario retributivo di genere pari a circa il 20 per cento a livello globale. Nell’Unione europea (dati Eurostat) la disparità di retribuzione complessiva è determinata principalmente dal cosiddetto “Gender pay gap”, cioè dalla differenza di retribuzione per ora lavorata (37,4%), seguita dalla differenza nel tasso di occupazione (32,2%) e da quella nel numero di ore lavorate (30,4%). In Italia, invece, la situazione è diversa. Il divario di genere nei tassi di occupazione rappresenta di gran lunga il principale indicatore della disparità di retribuzione complessiva (56,3%), seguito dal divario di genere nelle ore retribuite (32,7%) e dal Gender pay gap (11%). Le cause di questo divario sono molteplici, da una mancanza di trasparenza dei dati retributivi alla scarsa flessibilità oraria e organizzativa (conciliazione vita-lavoro) di molte aziende che non tengono conto di modelli di gestione “family friendly”. Permane, inoltre, una profonda sottovalutazione del lavoro, delle abilità e delle competenze delle donne, nonostante i dati dimostrino il contrario, e una forte differenza tra uomini e donne nella suddivisione del lavoro di cura, genitoriale e familiare. Ma ciò che più incide secondo noi sulle differenze salariali è la segregazione orizzontale e verticale nel lavoro: le donne sono concentrate in settori e professioni che sono generalmente meno pagati e valorizzati, ricoprono ruoli poco qualificati nelle aziende e incontrano maggiori ostacoli negli avanzamenti di carriera. Questo grazie anche alla persistenza di stereotipi culturali che influenzano la società e perpetrano un’immagine della donna obsoleta e non corretta.

La maternità rimane uno degli ostacoli principali all’ingresso e soprattutto alla permanenza delle donne nel mondo del lavoro. Spesso le donne si trovano di fronte ad un bivio, assecondare il loro naturale desiderio di avere un figlio oppure guardare alla propria realizzazione professionale. Entrambe le questioni sono legittime, ma questo oggi è ancora un problema. Eloquenti a riguardo sono i dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) sulla convalida delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali avvenute nel 2018. “Analogamente a quanto osservato nelle annualità precedenti, le dimissioni e le risoluzioni consensuali hanno riguardato principalmente le lavoratrici madri, a cui sono riferiti n. 35.963 provvedimenti, pari a circa il 73% dei casi. In presenza di un figlio le donne, dunque, sono spesso costrette a lasciare il lavoro. In questi dati, ovviamente, vanno ricompresi anche quelli relativi al fenomeno delle cosiddette “dimissioni in bianco”, quelle che generalmente si fanno firmare in bianco all’atto dell’assunzione e che si utilizzano poi in caso, per l’appunto di maternità, malattie prolungate ecc. Altrimenti, ciò non si spiegherebbe. Siamo lontani, pertanto, dall’aver sconfitto queste pratiche scorrette, nonostante si affermi da parte politica che il fenomeno, a partire dal Jobs Act , sia stato praticamente eliminato.

La questione femminile, com’è noto, attraversa tutti i contesti produttivi e professionali. Non esiste un settore che non registri fattori di discriminazione e condizioni di diseguaglianza più o meno accentuate della componente femminile.In diversi casi si è dovuto ricorrere ad artifici normativi per tentare di modificare una situazione di assoluto immobilismo. Pensiamo alla Legge Golfo-Mosca sulle “quote di genere” nei Cda delle imprese, alle modifiche alla legge elettorale (obbligo di scegliere un candidato dell’altro genere dopo due candidati dello stesso genere). Da ultimo, molto importante, il sub-emendamento alla Manovra di Bilancio che apre al professionismo delle atlete nelle diverse discipline sportive, un provvedimento sulla spinta anche degli apprezzabili risultati delle calciatrici ai recenti mondiali di calcio femminile in Francia. Insomma, la strada da percorrere rimane lunga, soprattutto dal punto di vista culturale. Nel senso che passi in vanti ne sono stati fatti, ma ancora consapevolezza e modifica dei comportamenti restano distanti. Non a caso, l’Esecutivo ha provveduto ad una proroga della stessa legge Golfo-Mosca che ha determinato più presenze nei Cda ma poche, ad esempio, nei ruoli di alta dirigenza come quello dell’amministratore delegato.

Sul capitolo relativo all’occupazione femminile, che vede le donne poco presenti e in lavori poveri e precari, con evidente divario sulle retribuzioni e sul futuro pensionistico, auspichiamo venga aperto un tavolo di confronto alla presenza delle due Ministre interessate, della Famiglia/Pari Opportunità e del Lavoro, dove poter fare valutazioni e proposte in merito con l’obiettivo di strutturare un Piano straordinario di rilancio, in linea con le intenzioni del Governo inserite nella Nota al DEF.Un altro passo importante, su cui registriamo già qualche riscontro positivo da parte delle citate Ministre, il recepimento della Direttiva UE Work Life Balance. A tale proposito, come sindacato, abbiamo chiesto di adeguare, in un’ottica di condivisione delle responsabilità genitoriali e di cura, coerentemente con quanto prescritto dalla stessa Direttiva europea, portandolo a 10 giorni, il congedo obbligatorio per il padre alla nascita del figlio. Occorre valorizzare e favorire il diritto alla maternità come diritto universale, confermandone concretamente il suo valore sociale nella consapevolezza che non si tratta di un costo ma bensì di un investimento sul futuro del Paese. Infine, è necessario potenziare la contrattazione collettiva, in particolare quella di prossimità (2° livello), strada maestra per realizzare quella buona flessibilità nel lavoro in grado di consentire una nuova organizzazione del lavoro fondata sul benessere di lavoratori e lavoratrici, anche in chiave conciliativa vita/lavoro, e di conseguenza, su migliori performance produttive delle aziende.