Nelle “notti magiche” di Euro2020 la chiave per una ripartenza adulta e consapevole

L’11 luglio è una data che appartiene e apparterrà per sempre all’Italia. Un Mondiale e un Europeo in questa data che ormai appartiene ai giorni da annoverare tra le feste nazionali.
Quelle di questo Europeo sono state davvero notti magiche. Nell’inno cantato in maniera magistrale da Nannini e Bennato ci sono gli anni ’90 e ci sono notti di gioia che l’Italia non potrà mai dimenticare. Quell’inno è stato ripreso volutamente dai ragazzi capitanati da Chiellini. “È un sogno che comincia da bambino e che porta sempre più lontano…
Non è una favola, dagli spogliatoi, escono i ragazzi e siamo noi”.

Sì, in questo tempo ci siamo ritrovati in case, piazze, macchine, luoghi più disparati e anche più disperati… uniti non da un pallone ma da una grande ed unica emozione: essere uniti, essere popolo, essere insieme, essere Italia.

Mentre scrivo rivivo i brividi del 2006, quando ho avuto la fortuna di percorrere le vie di Roma immergendomi in festeggiamenti che hanno una forte eco ancora oggi…Quei giorni erano i giorni di una nazione che si riscattava per vari scandali. I festeggiamenti di queste notti sono quelli di chi ha riscoperto la magia di un clima coinvolgente. Davvero per più attimi quei ragazzi siamo stati e siamo noi.

In “psicologhese” viene definita parentela mediatica la relazione che si stabilisce tra pubblico e protagonisti a lungo visibili attraverso i media. Vivendo tale professione, so bene che in alcuni momenti c’è un quid emotivo che va al di là di ogni etichetta e di ogni diagnosi.
Mcluhan, noto sociologo e filosofo, ha sempre sostenuto che il mezzo tecnologico che determina i caratteri strutturali della comunicazione produce effetti pervasivi sull’immaginario collettivo, indipendentemente dai contenuti dell’informazione di volta in volta veicolata. La nazionale di Mancini è andata oltre questa teoria.

In pochi giorni i nostri calciatori hanno incontrato i nostri cuori. Che bello! Mi capita raramente di tremare mentre scrivo. Lo faccio in questo istante perché sento i brividi di un’emozione che ha un significato più alto di quel che cogliamo ora. Questa è la vittoria di un Paese che ha riscoperto cosa significa davvero sentire l’emozione viscerale della gioia. Questa è la vittoria di un Paese che ha sofferto durante l’infortunio di Spinazzola ma che ha “corso” con lui sulle spalle di De Rossi verso i tifosi italiani nel fortino di Wembley. Questa è l’Italia di chi, come Raspadori, neanche minimamente sognava di poter vestire la maglia della nazionale fino a qualche mese fa e ora si ritrova con la coppa in mano.

È il Belpaese che ci racconta di un ct che ha iniziato a parlare di allegria. Lo hanno dato per visionario. E hanno fatto bene. Perché ha visto…ci ha visto lungo. Ha visto come possibile la rinascita. Ha visto come possibile la vittoria.

Lui, il Mancio dai colpi di tacco che erano poesia, ci ha regalato l’opera più bella. Il suo numero 10 lo ha portato in panchina indossando lo stesso abbigliamento di Bearzot. Nulla è un caso. Nulla. Tutto segue uno spartito. Pensiamo a Gianluca Vialli e a Roberto Mancini che perdono, proprio a Wembley, la finale dell’allora Coppa dei Campioni e si perdono in un lungo pianto. L’abbraccio dell’altra sera e il pianto annesso costituiscono la risposta della vita.

Il pianto dei gemelli del gol è il pianto di chi ha saputo crederci ed ottenere l’Europa in un modo “altro”, forse il più bello, a Wembley, contro i padroni di casa, i cui principi oxfordiani sono sfumati nei fischi durante il nostro inno e nella poca sportività dimostrata in tanti altri momenti. Vialli, che sta combattendo una battaglia difficile con il cancro, è stato testimone di vita per i giocatori di come si possa davvero rispondere con la vita a ciò che ci pone dinanzi la vita stessa. Florenzi è stato il primo a ricordarlo.

In quell’abbraccio con Mancini c’è tutto il nostro essere italiani. Noi, così rumorosi ma così sensibili, così capaci di dare nome alle nostre emozioni e di spenderci per esse, per spremerci, per viverle, per essere anziché apparire, per sentire vibrare la vita anziché farci sorpassare da essa. Ho visto decine e decine di macchine, ho incontrato centinaia di volti sconosciuti che per un attimo sono divenuti a me come familiari. Noi, italiani, figli di un’unica emozione: la gioia di una rinascita.

Ha ragione Chiellini. Si respirava una certa magia. Un’aria nuova. Una voglia incredibile di dare sfogo ai propri vissuti. In quelle urla ci sono le sofferenze di due anni incredibili. L’Italia del calcio, di questo tipo di calcio, è l’Italia che sa unire. È l’Italia che sa rialzarsi, che ha voluto rispondere non tanto al Covid 19 quanto al virus della tristezza e dell’angoscia. Nelle nostre case, nelle nostre piazze, in ogni luogo in cui abbiamo potuto seguire i nostri ragazzi abbiamo assaporato la voglia di far festa e di stare insieme, di strombettare, schiamazzare, urlare, abbracciarci.

Ho impresso negli occhi il viso di mia figlia che mi guarda stupita perché non aveva mai visto tanta gente festeggiare in questo modo. Ho ancora in mente costantemente gli affetti più cari e gli amici più vicini unirsi al coro di un urlo che è divenuto liberatorio. Il Presidente Mattarella che festeggia in maniera simile a Pertini nell’82.

Tutto “parla” di un evento che ha segnato e segnerà la nostra storia di vita. L’Europeo del ’68 si incontrò con un’Italia in piena povertà e alle prese con “moti rivoluzionari studenteschi”. Il Mondiale dell’82 fu il mondiale di Zoff, Cabrini, Paolo Rossi, Tardelli con quell’urlo che ha un suo continuum nel nostro urlo di oggi. Quello era un urlo che riconciliava con il buon umore dopo gli anni in cui dominava la politica di piazza e si avvicinava l’epoca del nostro campionato, definito di lì a breve il più bello del mondo. Del 2006 abbiamo l’immagine di Fabio Grosso che grida “non ci credo” dopo un gol fondamentale. Era l’incredulità del nostro Paese alle prese con una crisi a più livelli in cui la luce degli occhi del nostro ultimo rigorista ci ha donato luce in un momento di buio. Con lui i sontuosi Fabio Cannavaro, poi Pallone d’oro, e Gigi Buffon.

Da Gigi a Gigio. Lui, l’eroe di Wembley, Donnarumma. Le sue parate hanno spalancato le porte verso il trofeo atteso per ben 53 anni. I ragazzi, mentre scrivo, sono acclamati nella capitale come eroi nazionali. Il loro merito non è aver parato o aver fatto goal.
Il loro merito è aver testimoniato di come un gruppo in cui non vi sono divi possa vincere con lo spirito di squadra. Hanno dimostrato come la volontà si spinga oltre ogni pronostico.
Hanno, soprattutto, riportato un momento di leggerezza, profonda, fondamentale.
Questo Europeo sarà un ricordo straordinario come lampo di luce dopo tanta sofferenza o sarà il simbolo vero della nostra rinascita? Solo il futuro potrà dirlo. Tanto dipende da noi.
Queste notti magiche dovrebbero farci fermare un attimo. Queste notti ci riportano al nostro spirito bambino. È lì la chiave per ogni nostra ripartenza adulta e consapevole.
Sono state notti magiche davvero, sotto il cielo di un’estate italiana. Negli occhi di ognuno di noi c’era la voglia di vincere ma soprattutto la voglia di vivere come piace a noi. Del resto, è proprio così. È un sogno che comincia da bambino. Non è una favola. Ma una magia sì.

Giorgione, nostro grande capitano, continua a mostrare quella coppa. Da quegli spogliatoi siete usciti voi, ragazzi e siamo stati davvero noi. Il cielo è stato azzurro sopra Berlino. Lo è stato da poco sopra Wembley. Ora lo sia nelle nostre vite. In fondo dipende tanto da noi.