Equo compenso e IVA: lo Stato ha fame

Con l’allarme relativo al contagio da coronavirus ci sono alcuni punti, nell’agenda del secondo Governo Conte, che sono andati in secondo piano e snobbati dalla maggior parte dei media nazionali. Si parla del “ritorno di fiamma” del ministro Franceschini sull’”equo compenso” per copia privata, che già aveva scaldato il clima politico qualche anno fa e sull’apertura alla “rimodulazione” dell’IVA da parte del ministro Gualtieri. Cos’è la “copia privata”, alla fine? Nei fatti non dovrebbe essere considerata un’imposta o una tassa perché si tratterebbe di un compenso che chiunque acquisti un qualunque dispositivo, fisso o mobile, dotato di spazio di memoria, come smartphone, computer, tablet, schede di memoria, chiavette USB, hard disk, computer deve versare alla SIAE come forma di copyright e che questa dovrebbe “girare” a tutti coloro che esercitino un diritto d’autore.

Il costo dovrebbe essere compreso nel prezzo del dispositivo e, quindi, a carico dei produttori ma, come sempre accade, l’innalzamento dei prelievi fiscali, anche nel caso di “compensi obbligati”, soggiace al principio di traslazione d’imposta che li scarica direttamente sui consumatori finali. Già nella precedente esperienza di Governo l’inserimento del balzello su tutti questi supporti elettronici, che fu un punto fermo della retorica del ministro Franceschini come misura di equità e contrasto alla pirateria, provocò un innalzamento dei costi istantaneo, poi annullato dal gioco della concorrenza fra produttori e rivenditori per essere onesti, ma che provocò anche reazioni scomposte (e quasi comiche) quando Apple scorporò dal prezzo dei suoi dispositivi la quota di imposte e di costi fiscalmente imposti per rendere tutti coscienti di quale fosse la motivazione dei prezzi più elevati dei suoi prodotti in Italia, rispetto al resto del mondo.

Ovviamente la proposta è anacronistica e indica una certa ignoranza sia delle dinamiche di mercato (infatti i supporti potrebbero essere acquistati tranquillamente in altri stati UE senza pagare il balzello visto che la libera circolazione delle merci è e resta uno dei pilastri su cui si basa l’Unione) sia della continua evoluzione tecnologica che, in prospettiva, permetterebbe anche di evitare di usare supporti di memoria gestendo i propri dati in cloud o ottenendo contenuti, anche oggetto di diritto d’autore, in streaming ma qualcuno, tra Roma e Ferrara probabilmente non se ne è accorto e preferisce accanirsi sui consumatori per fare un minimo di cassa anche solo a livello propagandistico allargando la platea di supporti che sarebbero colpiti dal provvedimento anche ai dispositivi wearable e agli smartwatch che, prima, ne erano esclusi.

Alla fine, per redistribuire quattro soldi, rispetto al gettito, che può essere quantificato in uno 0,02% dello stesso nella migliore delle ipotesi, si va a creare un’ulteriore rigidità di mercato che, di fatto, si traduce in una tassa sull’ingegno e l’innovazione penalizzandole più di quanto si vada a compensare gli autori di contenuti. La rimodulazione IVA, invece, è un affare ben più serio. Dopo aver sbandierato il successo del disinnesco delle clausole di salvaguardia per il 2020, impedendo l’aumento automatico dell’IVA, ecco che il Governo già è alla ricerca delle risorse per scongiurare l’attivazione delle stesse nel 2021.

Visto che di riduzione di spesa (o meglio di ottimizzazione della spesa) o spending review, usando un termine diventato celebre negli scorsi anni, non ne se parla per non ammettere agli elettori, già in fuga dai partiti dell’attuale maggioranza stando ai sondaggi, “Ok abbiamo scherzato finora ma abbiamo solo aggravato i conti con misure populistiche e inutili senza toccare veramente gli sprechi e le inefficienze del settore pubblico” inizia già nei primi mesi dell’anno la ricerca spasmodica di una ventina di miliardi a copertura delle “riforme” attuate in precedenza che non hanno avuto alcun riscontro dal lato della crescita economica e, quindi, degli introiti erariali.

Per evitare di cadere in qualche equivoco va chiarito che parlare di rimodulazione dell’IVA, in questo paese, significa aumentarla ma, non potendo agire sull’aliquota massima, per non essere additati come menzogneri dall’opinione pubblica, si andrebbero a colpire quei beni a cui siano applicate le aliquote ridotte del 4% o del 10%, magari innalzandole di uno o due punti ovvero di ricalibrare i panieri spostando i beni da un regime Iva a uno superiore. Il risultato finale sarebbe, in ogni caso, l’incremento della pressione fiscale che già vede l’Italia nei primi ranghi della classifica mondiale, superata solo da Francia, prima assoluta, Danimarca, Belgio, Svezia, Finlandia e Austria (fonte OCSE).

Non è un mistero per nessuno che la crescita italiana, nel 2019 sia stata asfittica e questo 2020, nonostante l’ottimismo iniziale del governo, non si apre sotto i migliori auspici, zavorrato dalle imposte etiche e inutili che arriveranno nella seconda metà dell’anno e per l’emergenza sanitaria che si è aperta in questi giorni che, se non si risolvesse in tempi brevi, potrebbe portare alla paralisi delle tre regioni che producono più del 40% del PIL nazionale creando una crisi della finanza pubblica poiché, di fatto, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna mantengono tutto il Paese e andare a cercare nuove voci di introito a livello fiscale sarebbe la cosiddetta “zappa sui piedi” che rischierebbe di far saltare tutto il sistema Italia, spingendo alla chiusura o alla delocalizzazione di alcune aziende, che non avrebbero più alcun vantaggio a produrre in Italia, creando disoccupazione e disincentivando i consumi.

Si spera, quindi, che l’emergenza coronavirus possa spingere l’attuale governo, sempre che riesca a tenere insieme i pezzi della sua traballante maggioranza, a tornare sui suoi passi e a cassare o, quantomeno, a sospendere ogni aggravio fiscale previsto nel corso di quest’anno per evitare che la fame continua di nuove risorse per finanziare una spesa pubblica fuori controllo (perché improduttiva, soprattutto) possa spingere l’Italia in una decrescita di cui non ha bisogno, sia per poter fronteggiare le sfide con cui si è aperto quest’anno sia perché non sarebbe affatto “felice”, contrariamente a quanto possano pensare certi seguaci di questa idea.