Covid-19: non solo buio, ma concreti raggi di luce e di speranza

La nostra battaglia quotidiana contro COVID 19 prosegue senza sosta, ma i risultati sono, per ora, ancora molto scarsi. E’ una guerra impari, perché questo virus ci è quasi completamente sconosciuto: è strutturalmente nuovo, il che significa che non solo non abbiamo un vaccino specifico per bloccarlo, ma non abbiamo neppure un’immunità generica e diffusa, come è ad esempio per i comuni virus influenzali. Certamente si diffonde per via area, ma non è per nulla certo che non vi siano altre vie di contagio. Non siamo in grado di dire se – superata l’infezione – si stabilisca un’immunità permanente e gli stessi dati sui quali veniamo aggiornati sono incompleti, non nei numeri assoluti, ovviamente, ma sul numero reale delle persone infette, soprattutto se asintomatiche.

Ne consegue che non siamo in grado di sapere quanti degli infetti sviluppano la terribile patologia respiratoria, causa di morte. E’ un tentativo un po’ maldestro cercare di distinguere fra “morti per” e “morti con” coronavirus: il dato nudo e crudo è che il virus sta mietendo vittime. La terapia che possiamo mettere in atto, si può definire di supporto e di attesa: ha lo scopo di sostenere le funzioni vitali – in primis l’ossigenazione del sangue, con la ventilazione assistita – e di proteggere l’organismo dall’assalto del virus, ma un vero farmaco “etiologico”, in grado cioè di uccidere il virus, non è a nostra disposizione. E’ certamente un retrovirus, cioè un filamento di acido nucleico RNA, e pertanto stiamo utilizzando farmaci antiretrovirali, ma il farmaco letale per COVID 19 ancora non siamo in grado di metterlo in campo.

L’altro aspetto, per certi versi ancora più drammatico, è l’assoluta insufficienza dei presidi sanitari in generale, e delle Unità di Terapia Intensiva in particolare. Siamo stati colti di sorpresa, ci siamo illusi che le epidemie erano eventi dei tempi passati e, in particolare noi italiani (ma non solo noi) abbiamo operato una dissennata politica di tagli alle spese sanitarie in ottemperanza al diktat della “spending review” che l’Unione Europea ci ha imposto. Così, dal governo Monti in avanti, abbiamo ridotto al minimo indispensabile il numero dei medici, degli infermieri, dei posti letto ordinari e di rianimazione. Per quanto riguarda questi ultimi siamo arrivati a circa cinquemila (contro i 28.000 della Germania) ed oggi piangiamo lacrime amare.

In questo scenario certamente non rassicurante, ci sono, però, concreti raggi di luce e di speranza. Si sta riaccendendo un sano sentimento di appartenenza e di solidarietà: dobbiamo aiutarci a vicenda, siamo sulla stessa barca e la storia del popolo italiano ci insegna che è proprio nei momenti più drammatici che emergono la nostra forza ed il nostro coraggio. Si sta rifondando il senso stesso della costruzione europea: dall’Europa dell’euro e della finanza, all’Europa delle persone e dei popoli, con il coraggio di ammettere che la vera “unione” non si fa sull’euro e le correlate assurde regole dei patti di stabilità, ma sulla condivisione di quei valori umani eterni che il cristianesimo aveva mirabilmente rappresentato, che l’arroganza anti-cristiana aveva disprezzato e negato, e che oggi tutti invochiamo se vogliamo uscire dall’epidemia.

Anche la professione medica sta ritrovando la sua identità. Il medico, la medicina si fondano su uno statuto ontologico, che impone il dovere – umano, professionale e civile – di difendere la vita, combattere la malattia, prendersi sempre cura del malato e alleviarne la sofferenza. Le scorciatoie eutanasiche e l’abbandono del paziente a sue disperate scelte suicide non sono “medicina” e chi le pratica non è un medico! La storia della medicina è stata resa gloriosa dall’opera di sanitari – medici e infermieri – che sono giunti fino al sacrificio della vita per soccorrere ogni malato, come sta accadendo in questi giorni. Non certo da chi viola la sacralità della vita umana, facendosi agente di morte.

Vorrei concludere con un breve cenno alla mia personale esperienza. Parafrasando S. Paolo VI sento di stare vivendo un tempo “affascinante e drammatico”. Se vi dicessi che non ho paura, sarebbe falso. Un sentimento di timore profondo scorre nel sangue in ogni momento. Il virus è invisibile, è in agguato, può assalire senza accorgersene … può uccidere. E poi la famiglia, i nipotini … Nello stesso tempo, hai netta la sensazione che sei importante, che non puoi tirarti indietro. Quanto dolore in quei respiri affannosi e strazianti, in quelle persone vestite da astronauta per poter avere un po’ di aria … Poi ci sono gli altri colleghi, il personale sanitario: c’è tanto da fare e tutti stiamo lottando con tutte le nostre forze.

Ma prima di essere medico, sono cattolico, anzi sono un cattolico che fa il medico. Il che significa che mi viene affidata anche un’altra missione, soprattutto in questo momento in cui i malati non possono avere il conforto della vicinanza dei loro cari. La missione di “curare lo spirito”. E’ un gesto semplicissimo: una parola di conforto, una preghiera, un segno di croce. Noi sappiamo che la stessa morte non è un mostro invincibile, perché crediamo che c’è Chi ha vinto la morte. La morte non è la parola definitiva: è la linea biologica di non ritorno, ma è soprattutto la porta che apre alla vita senza fine. E questo è per tutti, credenti e non credenti. Quando un nostro malato muore, la commozione è grande, impossibile trattenere una lacrima. Alla fine del turno, scendo in obitorio, vedo la lunga fila di bare, il silenzio è totale. La sconfitta, come medico, è lì davanti, con tutta la sua crudezza. Ma c’è un vaccino contro la morte? Posso ancora fare qualcosa? Sì, posso intercedere per loro presso il Signore della vita e della morte, contando su quella misericordia che fa spalancare le braccia al Padre che attende il figlio che fa ritorno alla sua casa: “Signore, nel momento della prova, ora che il dolore e la trepidazione gravano sul nostro cuore, guidaci con la chiarezza della fede a trovare in te l’aiuto e il conforto” (S. Paolo VI).