Così ha vinto la “cultura dello scarto”

Non è la prima e purtroppo non sarà neppure l’ultima, ma certamente è una triste vicenda quella del piccolo Charlie Gard. Vicenda complessa in cui si sono sovrapposti aspetti di varia natura, da quello scientifico a quello affettivo, e forse proprio per questo emblematica di un tempo come il nostro segnato dallo smarrimento di una verità sicura cui riferirsi e guardare tutti insieme. Fermo restando il doveroso rispetto della sofferenza dei genitori, e proprio per evitare che la morte di Charlie e il dolore della famiglia siano eventi accaduti invano, qualche considerazione abbiamo il dovere proporla. Possiamo limitarci a due aspetti, che riguardano entrambe il valore della vita. Di Charlie come di ogni altro bimbo sulla faccia della terra.

La sindrome da deplezione mitocondriale è una malattia su base genetica rarissima (Charlie è il sedicesimo caso al mondo) ed inguaribile, ma nei confronti della quale è stato elaborato un protocollo sperimentale, validato scientificamente. Gli addetti ai lavori – e ricordiamoci che stiamo parlando di un ospedale pediatrico di altissimo livello, nel cuore della civilissima Inghilterra – dovevano sapere che l’eventuale beneficio di quella terapia è inversamente proporzionale al tempo in cui si applica. Più si attende e più calano le possibilità. Il bimbo è oggi prossimo a compiere un anno di vita, se mai ce la farà. E gli ultimi due mesi almeno li ha vissuti aspettando che la richiesta dei suoi genitori di tentare quella strada fosse in grado di ribaltare la sentenza di morte che i sanitari avevano già emessa, al punto di ordinare la sospensione del sostegno vitale. Ma non è dovere del medici tutelare la vita? Non è loro dovere proporre – se e quando ce ne sono – possibili terapie? Perché aspettare dieci mesi, e magari solo a seguito dell’ insistenza e dell’intraprendenza dei genitori, per accorgersi che esiste un’alternativa allo spegnimento del ventilatore automatico? E perché costringere quei poveri genitori a ricorrere all’ Alta Corte per vedere accolta la loro richiesta di speranza? E, quindi, perché sprecare altri due interminabili mesi in contenziosi etico-legali, quando anche un giorno di terapia potrebbe fare la differenza? Non lo sapevano, i medici? Male. Lo sapevamo? Peggio! È lecito pensare che un po’ più di deontologia, con un pizzico di umiltà, sono il vero antidoto ad ogni dannosa supponenza.

Resta ancora un passaggio che merita una delicata attenzione. Si dice che ora si deciderà quando e come interrompere il sostegno vitale. Charlie è affetto da una patologia che progressivamente spegnerà la fabbrica energetica del suo corpicino. E, quindi, morirà di morte naturale. Perché non accompagnarlo con tutto l’amore che i genitori gli hanno donato fino a quel naturale momento? Non c’è dolore fisico da lenire, magari accelerando la morte. C’è invece il coraggio di attendere, la forza di accompagnare e condividere. Siamo proprio sicuri che la morte di un uomo, qualsiasi uomo, possa essere imposta e comminata per legge? Esiste una vita talmente indegna di essere vissuta, da legittimare di negarle il nostro rispetto totale fino al momento della morte naturale? Sento i brividi, ma purtroppo – una volta di più – è la “cultura dello scarto” che segna un punto a suo favore.

Massimo Gandolfini – Neurochirurgo e Psichiatria