Cosa sta accadendo alla Deutsche Bank?

C'era una volta la banca. Qualcuno inizierebbe così la narrazione di quello che è successo al principale istituto tedesco ma sarebbe in errore, perché ad essere in crisi non è la banca come intermediario finanziario ma un modello di banca che, volenti o nolenti, si è diffuso nel mondo. Si parla dell’idea di banca universale che si contrappone al modello specialista di banca d’affari e di banca commerciale. Volendo fare un excursus storico la forma universalistica della banca, cioè di un ente omnicomprensivo che racchiuda in sé ogni ramo del business bancario, è piuttosto antica e si fonda nel modello creato dal Crédit Mobilier dei fratelli Pereire il cui crack, nella seconda metà dell’800, portò alla specializzazione degli istituti che sfociarono in Usa nel famoso Glass-Steagal Act e in Italia nella riforma bancaria operata dal fascismo nel 1936 e modificata solo dalla c.d. Legge Amato nel 1990. Alfieri del modello di banca universale sono da sempre i tedeschi con le loro Grossbanken, tra cui Deutsche Bank.

Il modello di banca universale consente di coniugare in sé sia la normale attività di sportello e di banca commerciale tout court con le attività di prestito di medio-lungo termine e le attività di investimento fino al venture capital permettendo, così, di collocare la raccolta diretta della clientela anche in attività ad alto rendimento (ma anche ad alto rischio, cosa da tenere a mente) per spingere profitti e remunerazione del capitale. Non è un caso che negli anni ’90 e primi anni 2000, il focus sui modelli organizzativi delle banche fosse di massimizzazione del ROE, il ritorno sul capitale, cosa che portò a varie riforme dei sistemi bancari per superare i provvedimenti adottati all’indomani della crisi del 1929 per garantire la stabilità del sistema, fu così che in Italia venne approvata la Legge Amato e in Usa, nel 1999, fu abolito il già citato Glass-Steagal Act.

La banca universale, anche detta banca mista, divenne uno standard diffuso nei principali mercati occidentali sia in forma di banca unica sia in forma di gruppi societari composti da una capogruppo e più società specializzate sottostanti. La grande differenza tra le due forme sta nell’assunzione dei rischi, ovviamente: nel primo caso concentrati sull’unica azienda operante su più fronti e nel secondo distribuito sui vari attori, più o meno, formalmente indipendenti l’uno dall’altro. Sembra ovvio che la banca unica sia, potenzialmente, più redditizia poiché va a minimizzare i costi di struttura e di attivare delle economie di scala interne maggiori al prezzo, però, dell’assunzione di maggiori rischi.

Le crisi bancarie che s’innescarono all’indomani della “scoperchiatura” del caso dei c.d. sub prime loans furono il primo campanello d’allarme sulla rischiosità del settore bancario così come strutturato e il crack di un istituto come Lehman Brothers dimostrarono come non esistano delle aziende troppo grandi per fallire e che la concentrazione del rischio diventa un punto focale nella strutturazione dei piani per il futuro nel settore. Nel corso degli ultimi dieci anni, infatti, diverse crisi di interi stati furono innescate da un crollo del sistema bancario, dall’Islanda al Portogallo, dall’Irlanda a Cipro, tutti paesi caratterizzati dal fatto di aver dovuto immettere ingenti capitali pubblici nel sistema creditizio per evitarne il crollo e facendo così levitare a dismisura il debito pubblico.

La crisi del settore ha toccato anche l’Italia, come la cronaca degli ultimi anni ricorda, che, però, è discesa da un problema di NPE, Non Performing Exposures cioè i crediti deteriorati, derivati da una lunga recessione innescata dai deficit strutturali del sistema Paese e aggravata dall’azione del governo Monti, prima, e dal governo Letta, poi, che tramite la stretta fiscale operata ha portato a una moria senza precedenti di aziende nella penisola, e dalla frammentazione del mercato bancario che vede due grandi competitor spartirsi circa il 50% del mercato e lasciando il restante a centinaia di altri istituti creando un vero e proprio problema di common pool e di concentrazione del rischio nelle realtà più piccole.

Diverso il caso di Deutsche Bank e del sistema tedesco. Diciamo inizialmente che il sistema delle banche locali, le Landsbanken, soprattutto di proprietà pubblica non gode di buona salute caratterizzate anch’esse da alcuni problemi di liquidità e di gestione di incagli e sofferenze ma quello che veramente merita un’attenzione particolare è cosa stia avvenendo in Deutsche Bank. Questa non è una banchetta di poco conto, ovviamente, è una di quelle aziende ritenute sistemiche per dimensioni e per attività, come l’italiana Unicredit o la svizzera UBS, che significa che in caso di fallimento questo avrebbe pesanti ripercussioni non solo nel proprio stato ma su tutto il mercato mondiale.

Deutsche Bank nacque per sostenere le industrie tedesche nel mondo ma, ad un certo punto, decise di spingere nei settori dell’investment banking, dal trading azionario al mercato dei derivati, soprattutto con la filiale statunitense per poter massimizzare profitti e dividendi agli azionisti, mettendo in secondo piano le attività più tradizionali, gestione del risparmio, finanziamento alle imprese, mercati valutari e consulenza, che rimanevano centrali, comunque, nel vecchio continente. Il problema è che per poter operare efficacemente in quei mercati devi avere un qualcosa, come la FED, che possa fare da “pompiere” e spegnere ogni principio d’incendio, come nel caso già citato di Lehman, velocemente e in maniera efficace, assorbendo i “titoli tossici” in eccesso e inondando di liquidità il mercato al bisogno, tutte cose che, nonostante l’azione di Mario Draghi, la Bce non può fare per statuto. Non esiste “whatever it takes” che tenga in questo senso.

Da qui alla ristrutturazione aziendale profonda che è stata varata il passo è breve. Molti si concentrano sui 18.000 esuberi, pari a quasi il 20% di tutto il personale in servizio, e quasi tutti concentrati nel comparto di banca d’investimento, soprattutto in Usa, ma il vero punto sta nello scorporo dall’attivo di tutti i titoli ad alto rischio, i cosiddetti level 3, in una non core unit per 74 miliardi del suo portafoglio di attività ponderate per i rischi (RWA) e 288 miliardi delle esposizioni con leva più il ritorno all’attività canonica di un istituto di credito da cui, negli ultimi anni, sono arrivate tutte le componenti positive di reddito in bilancio.

In pratica la Deutsche Bank del futuro sarà una banca ben diversa da quella che, finora, il mercato mondiale ha conosciuto e molto più simile a quella che si conosce in Italia e che opera nei servizi di pagamento e nel settore del credito. Un modello, quello italiano, che, nonostante la stampa avversa e la percezione generale, non ha mai puntato completamente sulla banca universale e, così, ha resistito piuttosto bene a questi anni di “vacche magre” con dei crack limitati a casi, generalmente, marginali, anche nel caso delle due banche venete, e che ha saputo rinnovarsi da solo e ristrutturarsi in maniera piuttosto efficiente e che continuerà nel processo di derisking e di consolidamento senza alcun aiuto esterno.