I terreni della cooperazione tra Europa e Africa

Chiunque oggi abbia una rudimentale conoscenza della geopolitica internazionale non può fare a meno di riconoscere la centralità dell’Africa. Le ragioni sono molteplici e meritano un’attenta disanima.

Anzitutto occorre sottolineare la crescente attenzione che i grandi player mondiali rivolgono al continente, anche se poi spesso si evidenziano delle competizioni economiche di matrice straniera in controtendenza rispetto alle istanze delle sfide globali. Ecco che allora la cooperazione con l’Africa rappresenta per molti governi un asse strategico irrinunciabile, soprattutto per quanto concerne l’approvvigionamento delle cosiddette commodity. Al contempo, però, all’interno dei singoli Stati africani, in particolare nella macro-regione subsahariana, si assiste ad una crescente parcellizzazione degli interessi causata da attori esterni i quali prediligono, in molti casi, il cosiddetto bilateralismo. Di conseguenza, chi decide di investire nel continente si prefigge di consolidare il proprio interesse nazionale attraverso un’espansione della propria agenda politica nei territori del continente africano.

Tuttavia la competizione nell’ultimo decennio ha assunto proporzioni sempre più globali tanto da confermare la presenza, con declinazioni diverse, di attori consolidati (come Cina, Stati Uniti, Francia…) o di segnare la scesa in campo di alcuni in costante ascesa (Russia, India e Turchia su tutti). Una centralità geo-strategica, quella africana, trascurata spesso dai media internazionali, ma in continua evoluzione rispetto ad altri e più noti scenari di crisi e di competizione come, ad esempio, quello mediorientale.

Che in Africa si giochi il futuro del mondo è peraltro reso evidente dalle dinamiche demografiche, economiche e sociali che ridisegnano il profilo del continente africano. Da oggi alla fine del secolo la popolazione africana passerà da 1 miliardo 300 milioni a quattro miliardi su una popolazione mondiale che nel 2100 sarà di 11 miliardi. Questo in sostanza significa che più di un terzo degli abitanti del pianeta saranno in Africa. Basti pensare che la Nigeria alla fine di questo secolo sarà il terzo paese a livello mondiale per dimensioni demografiche dopo India e Cina.

Le previsioni delle grandi istituzioni internazionali, prima che scoppiasse la pandemia di Covid-19 stimavano che circa la metà delle economie a più rapida crescita sarebbero state africane, portando con sé un’espansione della classe media e un incremento nelle capacità di spesa dei Paesi africani. Questa evoluzione socio-economica ha certamente subito una battuta d’arresto a causa della circolazione del Coronavirus che non solo ha penalizzato il già precario sistema sanitario continentale, ma ha frenato il commercio e incrementato il debito estero.

Ciò non toglie che la recente nascita dell’Area di libero scambio continentale africana (African Continental Free Trade Area, Afcfta nell’acronimo inglese) ha suscitato l’interesse di non pochi attori globali come la Cina, soprattutto in termini di commercio e investimenti. Per non parlare degli interessi securitari che investono la Coalizione internazionale Anti-Daesh. A questo proposito è bene rammentare che la linea di faglia tra Oriente e Occidente che un tempo era localizzata in Medio Oriente, oggi attraversa l’Africa da Meridione a Settentrione. L’azione espansiva di movimenti jihadisti nella fascia saheliana la dice lunga.

L’Europa — per contiguità territoriale, legami storici e intensità di relazioni — più di ogni altra realtà statuale deve essere attenta al futuro dell’Africa, anche perché tutto ciò che vi accade investe per induzione il continente europeo come i flussi migratori dimostrano. E in questo caso la vera sfida, prima ancora che essere politica, sociale o economica è culturale. Un salto di prospettiva certamente non scontato che richiede a ciascuno — europei e africani — di lasciarsi alle spalle stereotipi, pregiudizi e diffidenze. Il presente è già così carico di incognite che non ci consente ripiegamenti, recriminazioni o nostalgie. La sfida è costruire un futuro di sviluppo, diritti e benessere condiviso.

Ma attenzione, l’Africa non ha solo bisogno di grandi investimenti nello sviluppo infrastrutturale (autostrade, porti, ferrovie, impianti energetici, edilizia civile). Servono anche strutture educative, servizi sanitari e sociali, in primo luogo per infanzia e donne. Ed è altrettanto importante sostenere la società civile, l’implementazione di sistemi democratici stabili e di apparati pubblici affidabili, nonché il riconoscimento di diritti civili e umani a volte negati.

Un africano su due ha oggi meno di 18 anni. La dimensione media delle famiglie africane, contrariamente a quanto avviene oggi in Europa, è di 4/5 componenti nelle città e 6/7 nelle aree rurali. Per queste ragioni sarebbe auspicabile la definizione di un «Migration Compact Euro-Africano» equo e solidale, che possa ridare dignità alla mobilità umana, scongiurando ogni forma di tratta di esseri umani, governando i flussi migratori nel rispetto del sacrosanto valore della vita umana.

D’altronde, la fenomenologia migratoria è ormai ben nota: le avverse condizioni climatiche determinate dal global warming, la conseguente insicurezza alimentare, la crescita demografica, così come le tensioni che caratterizzano alcune aree continentali e la pervasiva presenza di gruppi islamisti militanti, sono tra le cause che spingono molte persone a spostarsi sia entro i confini nazionali (Idp, Internal displaced people) sia oltre frontiera, nei Paesi confinanti o al di fuori del continente.

Da rilevare che è stato ampiamente dimostrato come i migranti, qualora fossero regolarizzati, nel lungo periodo, non solo offrirebbero nuove energie alla Vecchia Europa, ma sarebbero in grado di versare in media agli Stati europei più di quanto potrebbero ricevere in prestazioni. A scanso di equivoci, i numeri parlano chiaro: nel 2050 solo il 23 per cento dei cittadini del Vecchio Continente avrà meno di 25 anni e un terzo della popolazione sarà costituita da ultrasessantenni; a riprova che l’economia reale europea, nel prossimo futuro, non potrà prescindere dalle forze giovani del continente africano.

Tutti terreni, questi della cooperazione Nord-Sud, su cui l’Europa e l’Africa hanno molto da condividere e sui quali occorre misurarsi con perspicacia. Una cosa è certa: l’Africa non è povera, ma impoverita. È sufficiente leggere l’ultimo rapporto sullo sviluppo economico in Africa 2020 dell’Unctad (United Nations Conference on Trade and Development) per rendersi conto di quello che è un vero e proprio scandalo. Ogni anno, circa 88,6 miliardi di dollari, equivalenti al 3,7 per cento del Pil africano, viene per così dire trafugato. Si tratta di flussi finanziari illeciti (Iff), vale a dire movimenti illegali di denaro e beni attraverso le frontiere che risultano alla prova dei fatti illegali nella fonte, nel trasferimento o nell’uso.

L’agenzia delle Nazioni Unite stima che dal 2000 al 2015, i capitali illeciti abbiano raggiunto la stratosferica cifra di 836 miliardi di dollari. Rispetto allo stock di debito estero totale dell’Africa di 770 miliardi di dollari nel 2018, questa fuga di capitali evidenzia un incredibile paradosso: rende infatti l’Africa un «creditore netto nei confronti del resto del mondo», si legge nel rapporto intitolato «Contrastare i flussi finanziari illeciti per lo sviluppo sostenibile in Africa».

Ha dunque ragione Papa Francesco nella sua ultima enciclica “Fratelli Tutti” quando scrive: «Aprirsi al mondo è un’espressione che oggi è stata fatta propria dall’economia e dalla finanza. Si riferisce esclusivamente all’apertura agli interessi stranieri o alla libertà dei poteri economici di investire senza vincoli né complicazioni in tutti i paesi. I conflitti locali e il disinteresse per il bene comune vengono strumentalizzati dall’economia globale per imporre un modello culturale unico».

Come sempre la parola del Santo Padre allarga gli orizzonti e invita ad affermare l’azzardo dell’utopia, il sogno della fratellanza universale mosso da uno sguardo che vede nell’altro sempre un fratello, sempre una sorella: «Consegno questa enciclica sociale come un umile apporto alla riflessione affinché, di fronte a diversi modi attuali di eliminare o ignorare gli altri, siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole».