Come il sacrificio di Livatino ha ispirato il magistero della Chiesa

Rosario Livatino (…) è stato un gigante della verità. Un uomo che ha incarnato il Vangelo delle Beatitudini perché egli aveva fame e sete di giustizia”: è uno dei passaggi più significativi del saluto di giovedì scorso del presidente della CEI card Bassetti al CSM, in occasione della seduta dedicata al magistrato che domenica sarà beatificato nella Cattedrale di Agrigento (https://www.centrostudilivatino.it/ll-csm-il-card-bassetti-su-livatino-un-gigante-della-verita/).

Su Rosario Livatino si sta formando un importante magistero pontificio, col discorso che Papa Francesco ha tenuto il 29 novembre 2019 ai componenti del Centro studi Livatino in occasione del loro convegno annuale (https://www.centrostudilivatino.it/discorso-del-santo-padre-francesco-ai-membri-del-centro-studi-rosario-livatino), ed episcopale: il saluto di ieri è stato preceduto dall’omelia che lo stesso card Bassetti ha pronunciato durante la S. Messa celebrata il 21 settembre 2020, per i trent’anni dalla morte (https://www.centrostudilivatino.it/livatino-dedizione-al-servizio-senza-superominismi/), e sarà seguito dall’omelia che il card Marcello Semeraro terrà domani, durante la cerimonia di beatificazione.

I punti cardine di questo magistero sono tre:

  • il primo riguarda il confronto fra l’appartenenza a un’associazione mafiosa e l’essere cristiano. Al CSM il presidente della CEI ne ha rimarcato la radicale, reciproca incompatibilità, e ha richiamato il breve ma intenso discorso, un vero e proprio spartiacque, di Giovanni Paolo II nella Valle dei templi il 9 maggio 1993. La condanna del Papa Santo fu chiara e senza scampo: la mafia confligge col “diritto” alla vita, che è “santissimo” perché, prima dell’uomo, “è di Dio”, e il mafioso che non si converte è atteso dal terribile “giudizio di Dio”. Il sacrificio di Livatino, in quest’ottica, è al tempo stesso la manifestazione del delirio mafioso di ritenersi padrone della vita e della morte, e della vittoria della fede, allorché la morte inflitta diventa strumento di conversione, già per taluni degli assassini, e di riscatto per tutti;
  • il secondo è il rigore professionale di Livatino magistrato, il cui lavoro fu svolto nel pieno rispetto del diritto e nella direzione dell’accertamento della verità. Sono qualità che le cronache di oggi ci segnalano troppo spesso assenti, e ha senso averlo sottolineato davanti al plenum dell’organo di autogoverno della magistratura;
  • il terzo è il rigore morale di Livatino, non solo quanto al suo profilo di incorruttibile, e alle scelte di vita da lui operate per mantenerlo fino in fondo, ma anche per il coraggio da lui avuto nel testimoniare la verità.

Anche chi non crede deve essere grato alla Chiesa per aver portato a compimento, dapprima in sede diocesana, poi a Roma, il processo che ha condotto alla beatificazione del magistrato di Canicattì. Senza di esso la figura di Livatino non sarebbe stata riscoperta, finalmente conosciuta e apprezzata come merita, e soprattutto non avrebbe permesso una così ampia diffusione del suo profilo esemplare: di esempio, come ha ricordato il card Bassetti, soprattutto “alle giovani generazioni: a coloro che non sono ancora compromessi e che possono, anzi, devono resistere, con tutta l’energia e il coraggio della gioventù, alle false lusinghe malavitose”. Il che è ancora più importante oggi, a fronte di esempi in tutt’altra direzione provenienti dalla stessa magistratura.