Come far funzionare la “pace fiscale”

Quando si parla di “pace fiscale” futura si presume, solitamente, che sia in corso una “guerra fiscale” e, infatti, così è, per lo meno nella percezione comune.

Da un lato ci sono cittadini e imprese vessate da un fisco fin troppo esoso, dall’altra c’è la retorica del “dalli all’untore” riferita agli evasori fiscali considerati l’origine di ogni male dell’intero sistema Italia.

Nulla, però, può essere più errato di quest’ultima impressione perché, benché il sistema impositivo italiano sia folle sia nel numero di adempimenti richiesti sia nella mole di risorse drenate dallo Stato, a livello del mero pagamento delle imposte gli italiani sono tutt’altro che dei pessimi pagatori.

La pressione fiscale nel 2017, infatti, è stata calcolata al 42,3% del Pil, questo significa che a fronte di 1.700 miliardi di euro circa prodotti dall’economia nazionale ben 725 miliardi sono stati intermediati dallo Stato. Contemporaneamente, su dati 2016, il tasso di evasione si assesta al 15,6% secondo l’Agenzia delle Entrate e l’Istat che, contrariamente alla vulgata amplificata anche da diversi esponenti politici e mediatici, è un valore perfettamente nella media degli stati Ocse e addirittura di un punto percentuale inferiore al tasso di evasione fiscale rilevato in Germania da Destatis.

Detto questo, comunque, va rilevato che la mole di cartelle per contenziosi aperti con il fisco italiano nel corso degli anni è divenuta estremamente rilevante e calcolata nell’ordine dei 1.000 miliardi di euro che, però, sarebbero difficilmente aggredibili perché riguardanti sia posizioni ancora in fase di accertamento definitivo, sia altre dietro contenzioso anche a livello giudiziale sia altre ancora in capo ad aziende fallite o a soggetti ormai defunti. I tempi e i costi per la riscossione, tutt’altro che certa, sarebbero quindi improponibili tanto che se si trattasse di poste in un bilancio aziendale, invece che fiscali, con molta probabilità verrebbero spesate e portate a perdita su crediti in bilancio.

A tutto ciò si dovrebbe considerare che il c.d. “governo del cambiamento” avrebbe previsto una rivoluzione in ambito impositivo, fosse anche solo per l’estensione del regime di flat tax dalle società a tutto il comparto produttivo di professionisti e Pmi, e, solitamente, prima di operazioni del genere si dovrebbe fare tabula rasa del pregresso per ripartire da zero.

Qui entra l’ipotesi del condono tombale, che è sempre un’azione onerosa da parte del contribuente ma che permetterebbe di chiudere tutte le posizioni aperte con il fisco con un forte sconto rispetto al mero “saldo e stralcio”.

Ovvio che solo la parola condono in coloro che abbiano costruito la propria carriera politica sui temi della trasparenza e dell’onestà, presunta e auto dichiarata almeno, faccia venire la pelle d’oca anche solo per la difficoltà di giustificare il tutto al proprio elettorato di riferimento che giudicherebbe questa azione il solito regalo ai mariuoli che abbiano gozzovigliato a spese degli onesti contribuenti ignorando che, invece, se si andassero a spulciare le cartelle inesatte le sorprese potrebbero non essere poche anche solo per la reale esistenza di alcuni degli illeciti contestati.

Per queste ragioni il “colpo di spugna” che si va delineando non sarà chiamato “condono” ma prenderà il nome più evocativo di “pace fiscale” che si allinea, malignamente parlando, alla neolingua del politicamente corretto che si sta affermando sempre di più e che serve per nascondere fatti e concetti poco graditi dietro espressioni che offrano di questi una percezione neutra o, addirittura, positiva.

Tralasciamo le modalità con cui questa sanatoria avrà luogo poiché ad oggi sono solamente abbozzate e, sicuramente, verranno modificate nel corso dei lavori parlamentari ma il concetto che sta alla base non è banale. Una chiusura di tutte le posizioni pendenti, anche con forte sconto come indicato qualche riga fa, rappresenterebbe una fonte sicura di introiti per lo Stato a fronte di un credito aleatorio che presenterebbe costi ingenti anche solo dal lato dell’azione di riscossione che, come già ricordava Befera anni fa, quando erano in carico a Equitalia, rappresentano un macigno che, spesso, annulla il vantaggio per i conti dello Stato dato dal pagamento delle imposte arretrate.

Il problema vero che si va delineando, però, è che perché ci sia una vera “pace fiscale” deve essere riformato completamente l’impianto fiscale con l’abolizione della clausola del “solve et repete” a fronte delle contestazioni (prevista dall’art.29 del Dl. n. 78/2010 nonostante la Corte Costituzionale ne avesse indicato l’illegittimità con la sentenza numero 21 del 31 marzo 1961) unitamente all’applicazione vera del c.d. “Statuto del Contribuente” (Legge 27 luglio 2000, n. 212) per garantire i diritti, finora solo sulla carta, delle persone a fronte dei doveri, certi, con il fisco.

La “pace fiscale”, infatti, deve essere l’occasione per ripristinare il contratto sociale con gli italiani, riportando al centro i contribuenti stabilendone una volta e per tutte, in maniera inequivocabile, diritti e doveri portando il fisco ad essere al servizio del cittadino e non meramente un male necessario al funzionamento della Cosa Pubblica.

Sarebbe inutile se lo strombazzato provvedimento finisse per essere l’ennesima trovata per acquisire un introito una tantum per fronteggiare un’esigenza di liquidità, diverso sarebbe, invece, se le dichiarazioni dei vertici di governo in questi giorni si trasformassero in un impianto strutturale volto a riportare equità nei rapporti, sempre problematici, fra cittadini ed Erario ovviamente il tutto unito all’azzeramento della situazione pregressa per permettere una ripartenza a tutti.