Chi comanda ora in Siria

Il processo di stabilizzazione dello scenario siriano prosegue portando con sé numerose difficoltà. Il summit di Soči della settimana scorsa è servito ad assodare ciò che, al momento, era stato possibile solo percepire: Russia, Turchia ed Iran rappresentano le forze “vincitrici”, ormai determinate a far quadrare i propri interessi strategici nel designare l’assetto futuro dello Stato siriano. Le posizioni riguardo un accordo politico, infatti, rimangono molto distanti e la conclusione del conflitto non sembra vicina. Le parti, infatti, appaiono più preoccupate a puntellare le proprie zone d'influenza sul territorio.

A Soči sia Putin che Erdogan e Rohani hanno ribadito i minimi comuni denominatori della labile intesa raggiunta tra Mosca, Ankara e Teheran, ossia la lotta allo Stato Islamico, alle entità legate ad Al Nusra e ad Al Qaeda e alle sacche di resistenza ancora disseminate in alcune aree del Paese. Fatica a reggere l’intesa Mosca-Ankara sulla zona demilitarizzata di Idlib (nel Nord del Paese), mentre le preoccupazioni più forti giungono dal fronte turco, con Erdoğan determinato nel precisare che la lotta al terrorismo non dovrà assolutamente comportare l’appoggio diretto o indiretto alla creazione di “nuove forze” sul terreno di scontro. Il messaggio lanciato alla Russia è chiaro: che non venga in mente a Mosca di appoggiare l’Unità di protezione dei popoli curda (Ypg), incoraggiando in tal modo una zona cuscinetto sotto il controllo curdo che metterebbe in serio pericolo i confini sudorientali della Turchia. Ankara ha ottenuto così la tanto agognata linea dura contro i curdi. I recenti tentennamenti americani, poi, preoccupano non poco il terzetto impegnato nel capire il destino dei territori che, almeno stando a quanto dichiarato da Trump recentemente, a breve non saranno più presidiati dalle truppe statunitensi. La Russia continua a puntare fortemente sulla conferma di Bashar Al Assad e sul rafforzamento dell’ordine costituzionale. In altre parole, la linea perseguita metodicamente dal Cremlino e da Teheran consiste nel riconoscere sempre e comunque la Siria come un partner nonché un Paese sovrano, con un leader ancora nel pieno dei suoi poteri ed un esercito regolare legittimato a difendere il territorio nazionale. Le posizioni della Turchia, a questo proposito, divergono notevolmente. Pertanto, l’atteggiamento ambiguo degli Stati Uniti rimane una spina nel fianco nel processo di stabilizzazione siriano.

Lo scenario siriano, nella sua estrema complessità, fa emergere un dato di fatto, oltre ogni dietrologia, che non è più possibile ignorare: l’Occidente è progressivamente uscito di scena, gli americani procedono in maniera disorganizzata, Israele sembra preoccupata solo dalla presenza iraniana, mentre l’Europa non è riuscita ad influire né dal punto di vista militare né nel processo di pacificazione. Russia, Turchia ed Iran gestiscono sia la lotta all’Isis che il processo di pace avendo già all’attivo (escludendo i round di Astana) quattro incontri trilaterali dal novembre 2017 ad oggi, trovando sempre più spesso punti di contatto su temi di valore strategico come quello della crisi in Venezuela (dove il blocco ha appoggiato Maduro), dell’energia nucleare e dell’approvvigionamento energetico. Molti analisti sono soliti storcere il naso quando il dibattito tocca l’effettiva capacità del “mondo asiatico” nel gestire i processi globali del futuro, ma un dato di fatto non può essere negato: molte nazioni sulla via dello sviluppo stanno osando fin dove, una decina di anni fa, in pochi avrebbero pronosticato. L’asse Russia-Turchia-Iran potrebbe ancora far parlare di sé.