L’aumento dei prezzi dipende davvero dall’inflazione?

Fin dal 2012, anno del famoso “Whatever it takes…” di Mario Draghi, diversi commentatori paventavano il rischio di un ritorno all’iperinflazione, sul modello di fine anni ’70 e primi anni’80, nell’area Euro, spinta dalle operazioni di politica monetaria non convenzionali che, negli anni, hanno inondato i mercati.

La notizia, che gira dalla fine di ottobre, è che Eurostat stia calcolando il tasso tendenziale di inflazione al 4.1%, con un aumento dello 0.7% sulla rilevazione di settembre, e dovuto, principalmente, ai rincari delle materie prime e dell’energia in particolare che va a propagarsi su tutta la filiera dei prezzi, come rileva anche ISPI, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale.

Un momento…

Non sembra che qualcosa non quadri in queste affermazioni? Anche se si fosse degli interpreti ortodossi del pensiero della cosiddetta “scuola austriaca” di economia, che indica, nell’analisi del ciclo economico, che l’inflazione sia un fenomeno prettamente monetario dovuto all’incremento oltre domanda delle masse circolanti, non si potrebbe non notare che da ogni analisi questo innalzamento dei prezzi sia dovuto a fenomeni di mercato, relativi all’aumento della domanda di materie prime, e non a una caduta del valore valutario.

È ovvio che, utilizzando gli strumenti statistici comunemente adottati (quindi l’analisi della variazione del prezzo di un determinato paniere di beni), non è possibile diversificare l’effetto, simile, sui prezzi nominali che il deprezzamento della moneta ovvero l’apprezzamento dei beni dovuto a fenomeni esogeni, come, appunto, l’aumento del prezzo dell’energia, vada a creare.

La differenza, però, nel medio termine non è irrilevante poiché in caso di inflazione vera e propria il risultato sui prezzi reali sarebbe nullo, infatti tutto aumenterebbe, più o meno, nella stessa maniera, anche il costo del lavoro e, di conseguenza, i salari mantenendo, di fatto, inalterato il potere d’acquisto mentre nel caso di rincaro dovuto a un aumento sui mercati del prezzo delle materie prime aumenterebbero i prezzi di beni e servizi mentre i salari resterebbero al palo facendo crollare, così, il potere d’acquisto.

L’obiezione, logica, che si potrebbe porre di fronte a questo ragionamento sarebbe “ma allora perché la crisi di Weimar nella prima metà del ‘900 o del Venezuela, oggi?”. La risposta, anche questa abbastanza logica, sarebbe “per la variabile tempo”.

Questo, infatti, diventa cruciale per poter combattere efficacemente la perdita di potere d’acquisto: in presenza di tassi contenuti di inflazione, che potrebbero essere anche “benevoli”, i tempi per l’adeguamento salariale e, di conseguenza, per il mantenimento dello stock di consumi e investimenti potrebbero essere fissati con relativa calma, attraverso la contrattazione collettiva ad esempio, e la perdita momentanea di potere d’acquisto verrebbe, poi, compensata dalle maggiori disponibilità liquide seguenti; tutto ciò non succederebbe, invece, in caso di iperinflazione, che è così definita se i prezzi raddoppiassero o più nell’arco di un triennio e che renderebbe impossibile un adeguamento dei salari con tempistiche efficienti, salvo ricorrere a strumenti politici, come la scala mobile dei salari, che, addirittura, potrebbero anche aggravare la situazione già compromessa, come la storia già ci ha mostrato in passato.

Ma perché parlare di un “tasso benevolo” di inflazione, che è indicato dalla BCE ad esempio nel 2%, che a qualcuno potrebbe apparire strano oppure, addirittura, ingannevole?

La questione vera non sta, però, nel tasso soglia, che potrebbe anche variare nel tempo come stanno pensando oggi a Francoforte per passare a un “tasso simmetrico” cioè alla fissazione di un intervallo di oscillazione intorno a questo 2% non più visto come tasso puntuale obiettivo, ma nel concetto di tasso, diciamo, fisiologico di inflazione.

Un tasso di inflazione contenuto, infatti, potrebbe discendere anche dalla crescita del settore economico, quindi dalla ricerca del nuovo equilibrio tra domanda e offerta dato dalla maggiore disponibilità di risorse, lato domanda, a spingere consumi e investimenti.

L’esistenza stessa di un’inflazione positiva, infatti, spingerebbe all’impiego delle risorse e non alla loro tesaurizzazione, da un lato per la consapevolezza che domani i prezzi saranno superiori, quindi per massimizzare l’utilità del proprio potere d’acquisto, e dall’altro per cercare di evitare che il proprio risparmio perda di valore in termini reali se mantenuto in forma liquida.

Contemporaneamente un tasso di inflazione positivo ha un effetto rilevante sullo stock di debito pregresso, questo, infatti, è espresso in termini nominali in valuta di conto, un tasso di inflazione positivo, quindi, va a ridurre, in termini reali, il debito residuo rendendo, conseguentemente, meno oneroso sia il rimborso finale sia la servitù del debito: questo vale sia per il debito privato sia per il debito pubblico.

In quest’ultimo caso se l’aumento dell’inflazione fosse coadiuvato da un tasso di crescita economica positivo la sostenibilità dell’indebitamento aumenterebbe di pari passo anche perché, anch’essa, sarebbe calcolata in termini reali con una riduzione quindi del rapporto debito/PIL oltre che, come già detto, a una riduzione in termini reali della corresponsione degli interessi sui titoli di stato che, da anni, vanno a intaccare il saldo di finanza pubblica, non solo in Italia, riducendo i potenziali di crescita del sistema.

Tutto questo non accade, però, nel caso in cui l’aumento dei prezzi sia dovuto a fenomeni di mercato nel campo delle materie prime, ovviamente, o dei prodotti agroalimentari dove i saldi debitori reali non verrebbero intaccati mentre si avrebbe un crollo dei redditi reali, cosa che potrebbe andare anche a modificare i comportamenti di spesa e di investimento, visto che si ridurrebbe, di fatto, il tasso di risparmio, che è alla base della predisposizione all’investimento, creando le basi anche per una possibile recessione.

Ora, sia in Europa che in USA i prezzi sono in crescita e oltre oceano in maniera anche più evidente che nel vecchio continente, ma le autorità monetarie ed economiche non sembrerebbero troppo preoccupate non giudicando strutturale l’attuale situazione di mercato.

L’ipotesi è tutt’altro che peregrina, ovviamente, uscendo da un biennio di contrazione di consumi e di produzione dovuta alla pandemia ancora in atto ma saranno i prossimi mesi a dirci quale sarà la vera evoluzione di questo particolare momento.