Amministrative: le troppe anime presenti non sanno trovare un centro di gravità

Non chiamatele comunali. Le amministrative del 3 e 4 ottobre saranno le elezioni con la maggior valenza politica, soprattutto per il centrodestra, della recente storia repubblicana del nostro Paese. Chiamatele, semmai referendarie: Matteo Salvini contro Beppe Sala a Milano, Giorgia Meloni contro Roberto Gualtieri a Roma. I candidati ufficiali, indicati dalla coalizione di lotta e di governo (Lega e Fi con Draghi, FdI all’opposizione), rischiano di essere solo le comparse di questa recita con un soggetto ben preciso e chiaro, teso a stabilire chi comanda cosa.

La personalizzazione della contesa da parte dei due leader del centrodestra, la sterilizzazione della campagna elettorale elaborata dai partiti, trasformando le uscite pubbliche dei due capi in veri e propri one man show, sono lì a dimostrare come il test locale sia, in realtà, nazionale come non mai. Anche se tutti sostengono il contrario. Perché se la scheda depositata nell’urna determinerà i sindaci di alcune fra le più grandi città italiane (Milano, Roma, Torino, Napoli e Bologna, ma anche la Calabria, per la Regione) il responso elettorale servirà a fissare, forse una volta per tutte, i rapporti di forza all’interno del centrodestra, chiarendo, invece, quale sia il vero assetto del centrosinistra, dove le troppe anime presenti non sanno trovare un centro di gravità, se non permanente, almeno apparente. Dicevamo referendarie.

Fra il leader della Lega, Matteo Salvini e la presidente di FdI, Giorgia Meloni, è in corso una sorta di guerra fredda, resa plasticamente visibile dagli screzi milanesi durante l’iniziativa a sostegno di Luca Bernardo, e dal teatrino romano messo su per Enrico Michetti, dalla quale non uscirà vincitore solo chi, meglio dell’altro, stabilirà i rapporti di forza all’interno del centrodestra, in base al voto, ma saprà ottenere dall’elettorato quel mandato politico a guidare il cartello elettorale. In pratica Salvini e Meloni è un po’ come se chiedessero agli elettori se sia più pagante il centrodestra di governo o quello di opposizione.

Il voto di Milano e Roma, inoltre, servirà anche per capire quale ruolo avrà Forza Italia in futuro. Salvini e Meloni collocano già gli azzurri su un binario morto, dovendo fare i conti con l’assenza dalla scena di Silvio Berlusconi. Ma solo le urne certificheranno lo stato di salute del berlusconismo. E a sinistra, essendo il Pd di Enrico Letta diventato una sorta di socio ingombrante per gli altri azionisti del cartello elettorale, le cose non vanno certamente meglio. Non a caso le suppletive di Siena, una volta sarebbero state una pura formalità mentre oggi rischiano di essere l’elemento dirimente del dibattito in corso all’interno del centrosinistra, rischiano di trasformarsi nella Caporetto del Nazareno. Il peso elettorale della vicenda Monte dei Paschi, e a Siena la sinistra ha sempre avuto un rapporto stretto con la banca, rischia di far pendere la bilancia da una parte sola.

A Roma, invece, pesa, e non poco, la rottura con Carlo Calenda. L’ex ministro e leader di Azione, candidato a sindaco contro il centrosinistra, rischia di portare il Pd a infrangersi sugli scogli del risultato elettorale. Certo, a lato della storia principale ci sono personaggi come Matteo Renzi e Giuseppe Conte, destinati a galleggiare, con i loro partiti in forte crisi. Ma hanno pur sempre un ruolo. “Le amministrative sono il test di un bel niente”, va dicendo da tempo il fiorentino. “Le amministrative non sono un test”, argomenta l’ex premier grillino. Non ci sarebbe nulla di strano se l’uno e l’altro, che in vista del voto di domenica e lunedì dicono quasi con le stesse parole la stessa identica cosa, non fossero attualmente le pedine più distanti della scacchiera politica italiana. Matteo e Giuseppe affrontano la tornata elettorale del 3 e 4 ottobre con lo stesso piglio di chi, a una vigilia di amministrative affrontata col patema di sondaggi non proprio esaltanti, ha storicamente liquidato il voto locale come una specie di orpello; un accessorio importante a ridisegnare degli assetti ma rigorosamente a livello periferico; e, soprattutto, ininfluente a determinar e la forza di un leader o di un partito a livello nazionale.

Il trucco, in fondo, è antico quanto l’elezione diretta dei sindaci. Quando la vittoria ti sembra distante, derubrica; quando il traguardo locale ti appare irraggiungibile, minimizza. Ecco, a loro, ma non solo, vorremo ricordare una lezione. Massimo D’Alema, è stato l’unico presidente del Consiglio ad aver affrontato le amministrative prendendole di petto. Nel bel mezzo della campagna elettorale delle Regionali del 2000 il leader maximo spiegò ai suoi collaboratori – sondaggi alla mano – quale fosse il loro problema: “vincere troppo”. Finì male e Massimo si dimise. Ecco, tanto a Salvini quanto alla Meloni, ma anche a Conte e Letta, il consiglio (non richiesto) resta sempre lo stesso: maneggiare con prudenza.