Accoglienza profughi, primo passo per tornare a costruire l’Afghanistan

Il fallimento militare, politico, economico e sociale di 20 anni di missione Nato in Afghanistan sono una ferita che brucia nel costato dell’Occidente ma soprattutto nella carne viva dei circa 40 milioni di afghani che ritrovano ancora più instabilità, insicurezza, povertà, mancanza di prospettive e un regime integralista che, malgrado le rassicurazioni che tenta di dare alla Comunità Internazionale, probabilmente cancellerà quelle poche conquiste ottenute dalle donne nel campo dei diritti umani e dell’educazione.

In questo quadro l’accoglienza dei profughi e delle migliaia di afghani che hanno collaborato con i governi e le truppe Occidentali non è la soluzione alle difficili sfide che si presentano ma il minimo che i Paesi dell’Alleanza Atlantica possano fare per non perdere definitivamente la faccia e per tornare a giocare un ruolo che altrimenti sarebbe completamente affidato ad altri attori regionali – come la Cina e il Pakistan – interessati ad estendere ancora di più la loro influenza sul turbolento quanto strategico Paese dell’Asia Centrale.

Il ponte aereo senza precedenti che ha unito l’aeroporto di Kabul agli scali europei, americani e australiani non è stato carità ma un atto dovuto, sia per l’incolumità di centinaia di migliaia di civili inermi che hanno creduto a 20 anni di promesse e progetti finiti su un binario morto, sia per riscattare la serietà e l’affidabilità della coalizione. “Non ci dimentichiamo dei nostri amici e di chi soffre” al momento è l’unico messaggio che possiamo lanciare al resto del mondo, verrà presto il tempo di progettare una presenza e un’influenza che non possiamo demandare ad altri ma adesso possiamo solo tendere le mani a chi fugge.

La macchina dell’accoglienza ora è in azione in tutti i principali Stati membri della Nato e anche alcuni Paesi Ue non convolti nella missione stanno aprendo le loro porte. Sui nostri cieli nel giro di 10 giorni sono transitati oltre 160mila profughi. Solo negli Stati Uniti ne sono arrivati 110mila; 14mila in Gran Bretagna; oltre 5000 sia in Germania che Italia; 4100 in Australia; 3700 in Canada e 2600 in Francia. Nel frattempo prosegue la lunga marcia di migliaia di afghani che hanno già raggiunto l’Iran e che presto potrebbero raggiungere la rotta balcanica che porta al cuore dell’Europa. In questo frangente l’Ue deve dare prova di maturità per non lasciare l’emergenza in mano alle sole nazioni frontaliere. Nemmeno a dirlo, la Chiesa, senza perdere tempo in proclami e polemiche, è già in prima linea con le sue strutture.

L’accoglienza, l’integrazione e il riscatto di queste popolazioni sarà il migliore biglietto da visita per tornare a parlare all’Afghanistan e a tutta l’Asia centrale. Ostacolare i talebani per costringerli a togliersi di torno non basta se prima non avremo aiutato a formare una generazione di giovani afghani capaci di tornare ad influire da protagonisti nella loro madrepatria. Chi ha vissuto in quelle terre può e deve continuare a tenere i riflettori accesi sul sistema di governo che stanno mettendo in piedi i Talebani. Possiamo dimostrare che 20 anni di accesso dei bambini e delle donne all’istruzione non siano passati invano, dall’altra parte – senza farsi illusioni – alcune rassicurazioni che i talebani stanno lanciando in questi giorni riguardo a media, scuola e partecipazione politica, già confermano il fatto che non sarà più possibile calpestare taluni diritti fondamentali senza attirare l’attenzione e la condanna della comunità internazionale.

Insomma l’isolazionismo del regime talebano degli anni ’90 (abbattuto dall’intervento del 2001) sarà difficilmente ripetibile e questo già lo prova la dimestichezza che i nuovi miliziani integralisti hanno con i mezzi di comunicazione. Il ponte aereo deve quindi tramutarsi un ponte politico, culturale ed economico. Il vuoto, in natura come in antropologia, non esiste e se non ci sarà l’Occidente, con la sua visione dell’umano, a dialogare con l’Afghanistan ci saranno altre forze con obbiettivi ancora meno nobili di quelli che hanno animato la nostra fallimentare missione. Un ponte che sarà più solido solo grazie al contributo degli afghani che si trovano fuori confine.

Che ci piaccia o no, il dramma afghano riguarda tutto il mondo, nessuno può permettersi di ignorare uno Stato fuori controllo in cui può prosperare la produzione di droga, il terrorismo e non ultimo emergenze sanitarie con focolai di pandemie fuori controllo. L’attivismo umanitario di questa fase sia il preludio per tornare con altri presupposti a costruire un altro Afghanistan.