70 anni dopo Schuman: l’evoluzione dell’Europa deve spingere a una riflessione

Robert Schuman, che oltre 70 anni fa lanciava una dichiarazione che adesso ogni 9 maggio ricordiamo, è come i Beatles. Nel senso: chiedete a un giovane chi fossero e lui risponderà “Chi erano mai questi Beatles?”. Sommo paradosso, perché se quelli di Liverpool furono paragonati ai veri rivoluzionari delle sette note dopo Mozart, cioè da due secoli a quella parte, Schuman l’alsaziano fece una rivoluzione là dove la situazione era stagnante da circa due millenni. Non saremo mai stanchi di ripeterlo: la faccenda dell’Europa unita l’aprì Giulio Cesare con la spada, Schuman con De Gasperi e Adenauer iniziarono a chiuderla con il carbone e con l’acciaio. Sia gloria ai veri conquistatori, quelli che operano per la pace e non per la potenza.

I tre avevano in comune tre cose. La prima: avevano sofferto le pene della Guerra, da buoni oppositori degli autoritarismi e dei fascismi quali erano. La seconda: venivano tutti da altrettante Europe periferiche e di confine (l’Alsazia, il Trentino, la Renania) e quindi il sovranismo lo conoscevano anche nella sua parte meno tronfia e più dolorosa quanto inconcludente. La terza: erano democratici-cristiani, e di qui si parte per una nuova riflessione.

Dire che fossero cattolici, infatti, è al tempo stesso tanto, troppo e troppo poco. Tanto perché la cosa li qualifica e li spiega, mentre invece il politicamente corretto imperante e stroncante di questi decenni glissa su quest’aspetto fondamentale della loro personalità. Troppo perché la definizione rischia di schiacciarli in una rappresentazione oleografica: il pio politico che, zuccheroso come un San Francesco raccontato male in un sussidiario, arriva e sistema le cose dove il mondo cattivo è arrivato al limite dell’autodistruzione. Troppo poco, infine, perché l’essere buoni cattolici non vuol dire automaticamente essere buoni politici (a riguardo fioccano i precedenti, non solo novecenteschi). Per essere buoni cattolici e buoni politici ci vuole una vocazione apposita, fatta di attaccamento ai principi e all’identità, capacità di dialogo e di sintesi con le altre componenti della società (nazionale e internazionale), visione di lungo periodo e, al fondo di tutto, amore e rispetto per la persona umana. Senza anche uno solo di questi elementi tutti il resto crolla come un castello di carte, e della politica non resta che House of Cards.

Non è un caso, allora, che l’Europa sia nata democratico-cristiana. È l’evoluzione successiva che deve spingere ad una riflessione. Con l’attenuarsi della cultura democristiana, che precorre quella delle democrazie cristiane europee, il fattore di spinta ideologica (non più idealista) l’assunse la socialdemocrazia. Si dirà: Altiero Spinelli c’era fin da prima. Sì, ma Spinelli era voce isolata e sulle prime il pensiero di sinistra – lo dicono la Storia e i documenti – era a dir poco freddo sull’argomento. Ci vollero, negli anni ’80, Mitterrand e Gonzalez e prima ancora Harald Wilson a cambiare questa prevenzione. Ma si trattò di un successo tardivo come quello dei mandarini che arrivano a marzo. La socialdemocrazia scopriva l’Europa quando essa stessa non era più in grado di darle un’anima. La crisi venne coperta e rinviata con l’’89 grazie al pragmatismo e all’intuito di Mitterrand uniti alla visione storica da statista del democristiano Helmut Kohl. (Aggiungiamo: anche a Giulio Andreotti, che univa spesso l’una caratteristica all’altra).

Implodendo la visione laburista del Continente, restò in piedi l’unica cultura forte rimanente, quella liberale e liberista. Oddio, dire forte è davvero dire troppo, dacché il mercantilismo spesso spacciato come gusto per il giusto mezzo è dilagato nelle aule universitarie e nelle opinioni pubbliche con l’etichetta di Pensiero Debole, ma subito dopo è stato imposto sulle piazze nella sua veste di Pensiero Unico. Anche qui si dirà: il ministro degli esteri italiano del 1957, anno dei Trattati di Roma, era il liberale Martino. Inoppugnabile. Solo che quei Trattati, che istituirono non a caso il Mercato Comune, erano frutto della conduzione cristiano-democratica del progetto a livello continentale.

Il liberismo ha assunto il controllo della spinta impressa da Maastricht e l’ha trasformata nella forza frenante dell’adorazione del bilancio e del Pil. È durata qualche anno, e non pochi perché la spinta precedente era così potente che ci sarebbe voluta una guerra mondiale per bloccarla. Così l’ideologia del mercato ha potuto lucrare una rendita di posizione invidiabile: raccogliere i successi altrui, accumulare errori che sarebbero arrivati in pagamento a babbo morto.

Quel momento, alla fine, è giunto. Si pensi solo all’evoluzione di Angela Merkel: madrina dell’austerità fino a un paio di anni fa, ora felicemente e fortunatamente propugnatrice della solidarietà. Le radici democratico-cristiane riaffiorano dal terreno attorno alla vecchia quercia, ora che il bosco rischia di finire preda della speculazione. Tanto che la sua alter ego, la Signora von de Leyen, cita Don Milani e dice: “I care”, che poi è il senso profondo della Dichiarazione Schuman, dell’Europa Unita. E alla fine tutti capiamo cosa è mancato a questo Continente, e cosa bisogna ricostruire per il futuro: non solo e non tanto un legittimo memoriale ai suoi padri fondatori, ma la riscoperta di quello che erano e sono stati. Che poi è, al fondo, la nostra identità. Democratici e cristiani.

Chiudiamo concedendoci una piccola saccenteria. La Signora von der Leyen un piccolo errore l’ha fatto, perché “I care” lo diceva sì Don Milani, ma aveva cura di precisare che lo aveva mutuato da Martin Luther King, in opposizione al “me ne frego” dei fascisti. Ce lo spiegò tanti anni fa un vecchio genitore finito sui banchi del Parlamento Europeo. E se annullare la memoria di Don Milani è stata un’operazione imposta per anni da una destra vuota e intollerante, pensare che Don Milani si rivolgesse in inglese ai ragazzi di Barbiana sarebbe fargli un bel torto e dimostrare di non averci capito molto. Roba da sinistra veltroniana.