La misofonia, termine coniato nel 2001, consiste nell’intolleranza ad ascoltare determinati suoni che conduce, progressivamente, a isolare gli individui, di tutto il mondo, che ne soffrono.
Il termine attuale, dunque, è stato introdotto, a inizio millennio, dal team di studiosi coordinati dal professor Pawel Jastreboff, neurofisiologo polacco. Deriva da quelli greci di misos (odio, ostilità) e phoné (suono). Nel 1997, l’audiologa Marsha Johnson l’aveva definita “sindrome di sensibilità selettiva ai suoni”.
La caratteristica è che il disagio si avverte solo con specifici toni e non avviene con altri. Contrariamente a quanto si possa immaginare, il fastidio non si lega al volume (la maggior parte delle volte si riferisce a rumori appena percepibili).
Si manifesta, in genere, attraverso suoni ripetuti (a esempio i ticchettii), ritmati, uguali e continui, risultanti sgradevoli. La sensibilità si avverte soprattutto nei fragori vicini, prodotti da altri esseri umani (anche animali) nel vissuto quotidiano, nelle operazioni routinarie, legate a fenomeni fisiologici (mangiare, sbadigliare, starnutire, russare, ecc.). Alcuni effetti acustici ritenuti patologicamente fastidiosi, sono di carattere artificiale come il battere le dita su un tavolo. L’avversione avviene anche nell’udire alcune lettere o, addirittura, parole sgradite.
La misofonia è selettiva e produce una notevole reazione psicofisica che può sfociare in stati d’ansia, di panico o in atteggiamenti molto aggressivi. Sukhbinder Kumar, neuroscienziato, ha sostenuto l’aspetto simmetrico in cui si pone il soggetto rispetto al rumore: ansia e timore di assumerlo, di ripeterlo divenendone schiavo. Il misofonico è solitamente consapevole delle sue esagerazioni, si colpevolizza ossessivamente ma non riesce a superare il disagio.
Nella società attuale, contrassegnata da frastuoni di ogni tipo, la misofonia, pur non essendo molto diffusa, diviene un problema importante che può condurre a gravi conseguenze, tra imbarazzo, paura e vergogna, di isolamento sociale e di palese stigma/discriminazione. Negli articoli dedicati al problema, non trova riscontro una fattispecie contemporanea, sempre più invasiva e intollerante (per tutti): quella delle notifiche (soprattutto per i telefoni cellulari) dei social o della messaggistica digitale. Tale invadenza ritmica avrà un ruolo sempre più rilevante nella difficile accettazione cerebrale (localizzata nel lobo frontale del cervello).
Il 24 gennaio 2012, nel Messaggio del Santo Padre per la XLVI Giornata delle comunicazioni sociali, Benedetto XVI, affermò: “Quando parola e silenzio si escludono a vicenda, la comunicazione si deteriora, o perché provoca un certo stordimento, o perché, al contrario, crea un clima di freddezza; quando, invece, si integrano reciprocamente, la comunicazione acquista valore e significato. Il silenzio è parte integrante della comunicazione e senza di esso non esistono parole dense di contenuto. Nel silenzio ascoltiamo e conosciamo meglio noi stessi, nasce e si approfondisce il pensiero, comprendiamo con maggiore chiarezza ciò che desideriamo dire o ciò che ci attendiamo dall’altro, scegliamo come esprimerci. Tacendo si permette all’altra persona di parlare, di esprimere se stessa, e a noi di non rimanere legati, senza un opportuno confronto, soltanto alle nostre parole o alle nostre idee. Si apre così uno spazio di ascolto reciproco e diventa possibile una relazione umana più piena. Nel silenzio, a esempio, si colgono i momenti più autentici della comunicazione tra coloro che si amano: il gesto, l’espressione del volto, il corpo come segni che manifestano la persona”.
Mario Campanino, presidente dell’Associazione italiana misofonia, è l’autore del testo (pubblicato dalla stessa associazione, nel dicembre 2023), dal titolo “Scoprire la misofonia” (sottotitolo “Come vivere appieno con la consapevolezza misofonica”). Il volume “fornisce una panoramica del disturbo secondo vari aspetti, dalle basi scientifiche alle conseguenze sociali della misofonia a casa, a scuola e al lavoro; illustra i fondamenti relativi al trattamento della misofonia, al supporto delle persone che ne soffrono e offre una proposta originale di strumenti diagnostici”.
Paginemediche.it scrive che “il disturbo si presenta come sintomo isolato nel 9-15% dei casi. Per il resto è associato ad altri disturbi, il più frequente dei quali è l’acufene, che copre il 40-50% dei casi della totalità delle misofobie. […] Un interessante studio brasiliano del 2013, svolto dall’università di San Paolo, dimostra un’origine ereditaria. Lo studio è stato condotto su 15 membri appartenenti a tre generazioni di una famiglia, dai 9 ai 73 anni. I risultati, oltre che accertare appunto la componente ereditaria, hanno evidenziato l’origine del disturbo nell’infanzia e l’associazione con altre patologie. in particolare l’ansia nel 91% circa dei casi, il tinnito (50%), il disturbo ossessivo-compulsivo (41,6%), la depressione (33,3%), l’ipersensibilità ai suoni (25%)”.
L’origine del disturbo si ritiene di tipo neurologico. Alcuni pazienti ricollegano il suono a delle esperienze negative vissute in passato. In letteratura esistono diversi tipi di questionari specifici, per rilevare la presenza e il grado del disturbo. Nel web è possibile ricorrere a uno o più di questi strumenti. Gli studi, tuttavia, non hanno evidenziato origini, cause e caratteristiche specifiche né gli strumenti di rilevazione (questionari) hanno potuto configurarlo, al momento, come rientrante nel DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali o nell’ICD, la Classificazione internazionale delle malattie. Gli stimoli sempre più numerosi e continui che la società attuale pone a ciascuno, non aiutano a un’elaborazione mentale serena e discriminante. Un cervello più “riposato” è in grado di resistere meglio agli innumerevoli impulsi, non tutti graditi.
La terapia del suono, in cui si tende ad abituare il misofonico all’ascolto dei rumori sgraditi, è una strategia di risoluzione. L’altra è di carattere cognitivo-comportamentale (trattamento molto efficace per i disturbi psicopatologici in genere), con l’obiettivo di stimolare, nel soggetto, la corretta comprensione e convinzione (coinvolgendolo in prima persona nella soluzione del problema), sostituendo, attraverso una ristrutturazione cognitiva, ciò che appare disfunzionale con ciò che è funzionale. La componente emotiva è centrale in questo tipo di disturbo ed è necessario, quindi, aiutare a gestire meglio una tale reattività agli stimoli.
Il disturbo si manifesta con diverse gradualità: da semplice fastidio a intolleranza, fino a sperimentare rabbia e odio. Allo stesso modo, si riflette un differente rapporto con il prossimo: dalla difficile sopportazione all’esclusione. Conduce a situazioni di isolamento che sono prodromi di una solitudine successiva, più ampia e generalizzata. Rinunciare, a esempio, a mangiare con altre persone poiché infastiditi dal rumore della masticazione, è l’inizio di un distacco sociale.
Il ventaglio delle occasioni che producono effetti acustici diviene sempre più ampio, fino a costellare l’intera giornata e a progettare strategie di evitamento, di autoemarginazione. L’atteggiamento infastidito provoca sorpresa nel prossimo giudicante, fino a risposte parimenti intolleranti o di autentico dileggio; il tutto provoca ulteriore situazione di disagio e di asocialità. I bambini misofonici sperimentano duramente la loro avversione, incomprensibile per i pari, al punto di sviluppare un distacco sociale già in tenera età, con gravissime ripercussioni. Da sottolineare, purtroppo, come la solitudine si sviluppi soprattutto in famiglia, in quanto la maggior parte dei rumori si produce nel contesto domestico.
Tutte le relazioni sociali, dunque, sono a rischio e a riduzione, determinando un ulteriore aggravio alla condizione psicofisica del soggetto già duramente provato e limitato nella vita quotidiana.Ciò provoca un’inibizione nel muoversi e nell’uscire di casa con conseguenti compromissioni dal punto di vista scolastico o lavorativo. Da un punto di vista sociologico, quindi, va rimarcata tale deriva, in cui la società del rumore perde, dietro di sé, chi non la sopporta del tutto e non la assimila, anzi la somatizza, acuendo, anche in quest’altro aspetto patologico, il distacco con il prossimo, la solitudine.