Siamo parti di un tutto

Spesso si parla dell’integrazione come di un valore tanto desiderato. Giusto. È vero che oggi, per vari motivi, troppe cose sono divise, spezzate, smembrate. L’integrazione sembra un’utopia. Più la cerchiamo, provando a rigenerarla, più diventa preziosa, da salvare a ogni costo. Non sappiamo come, ma tentiamo, finendo col brancolare nel buio.

E' una priorità e ogni cosa finisce con l'essere subordinata a essa, anche se fa male favorire qualcosa al posto di un'altra, penalizzare una parte dell'insieme. Tutto è connesso. Ci vuole un’attenzione immensa, una vigilanza quasi eroica. Si deve favorire tutto ciò che favorisce l'unità. Anche a spese di imperfezioni o mancanze delle singole parte: quel che conta è il legame. Sacrifichiamo i dettagli, gli aspetti individuali, per l'obiettivo finale: il bene della comunità.  

Ma oggi Gesù, nel Vangelo, sembra mettere in dubbio il valore dell'integrazione. Parla in tono deciso e, nuovamente, senza alcun dubbio, smonta tutte le sovrastrutture con le quali pensavamo di salvare le nostre pigrizie e comodità. L'integrazione va bene, ma non a ogni costo: occorre prendersi cura anche dei dettagli, delle cose più piccole, perché ciascuna di esse è importantissima. Non c'è un buon insieme se i singoli elementi che lo compongono non vanno bene. 

Secondo la logica del Vangelo va gettato via ogni pretesto per compiere il male, per quanto piccolo sia: una cosa che sembra utopica, irreale, irrealizzabile. Eppure lo stesso Vangelo ci chiede di salvare i più deboli, di cercare la pecora smarrita, la moneta perduta. Gesù viene annunciato come colui che non rompe la canna spezzata. Si tratta di una svolta? No: è solo una nuova prospettiva.  L'integrazione non è solo un valore personale e individuale. Se davvero siamo tutti connessi (come ricorda tante volte Papa Francesco nell'enciclica “Laudato Si“) va cercato l'insieme più grande, che integra tutti. E' questo il paradosso: come individui acquisiamo valore in quanto integrati in qualcosa di più ampio: la famiglia, la comunità, la Chiesa. L'individualismo, anche in ambito spirituale, ci fa dimenticare questa prospettiva essenziale, data per assodata tanto dalla Chiesa apostolica che dalle prime comunità monastiche. 

Oggi, se vogliamo crescere, o fare un discernimento, lo facciamo esclusivamente in riferimento alla nostra persona e al nostro percorso. Il resto arriva dopo. Invece le comunità della Chiesa primitiva e quelle monastiche nell’antichità erano sempre consapevoli della prospettiva comunitaria. Il primo concilio della Chiesa, svoltosi a Gerusalemme nell'anno 50, ne è il migliore esempio. Anche le raccomandazioni della Regola di San Benedetto, secondo cui essenzialmente tutto si svolge alla presenza dei confratelli e con la cura per la comunità, vanno in questa direzione: l'integrazione non solo oltrepassa la nostra persona ma apre orizzonti esistenziali, ci consente di essere davvero liberi.

Cresciamo e siamo noi stessi solo nel rapporto con gli altri. Questo ci fa acquisire un atteggiamento pragmatico: esigere tanto da noi stessi per salvare le relazioni col prossimo. E' la strada di Gesù, che non perseguiva l'integrazione, anzi è finito disintegrato sulla croce. “Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1 Giov. 3, 16). Lui “non compiacque a se stesso; ma com'è scritto: gli oltraggi di quelli che ti oltraggiano son caduti sopra di me” (Rom 15,3).

Forse oggi ci sentiamo disgustati dalle accuse lanciate contro la Chiesa. Siamo confusi e spaventati. La nostra tranquillità sparisce. Al posto della pace troviamo il tormento. Significative, sotto questo aspetto, sono le parole di don Dolindo Ruotolo, che ha sperimentato l'ingiustizia di tanti uomini di Chiesa, senza però mai pronunciare una parola negativa contro di essa.

Piuttosto diceva: “L'anima mia ti esalta e ti glorifica, o Santa Chiesa di Dio, sempre bella come sposa abbigliata per il suo Diletto. Mi hai percosso, sì, ma come si percuote la selce perché dia la favilla, e questa arida mia pietra ha dato scintille d'immolato amore… Mi hai ridotto come povero verme, ma non mi hai mai ucciso, perchécome bruco nudo mi sono nascosto tra le virenti foglie della tua vita lussureggiante, e sono diventato farfalla dai riflessi di oro, l'oro della carità che arde nel centro dell'anima tua. Ecco una integrazione evangelica – proprio come quella del quarto grado dell’umiltà dalla Regola di San Benedetto: quello del monaco che, pur incontrando difficoltà, contrarietà e persino offese non provocate nell'esercizio dell'obbedienza, accetta in silenzio e volontariamente la sofferenza e sopporta tutto con pazienza, senza stancarsi né cedere secondo il monito della Scrittura: 'Chi avrà sopportato sino alla fine questi sarà salvato'“. E ancora: “Sia forte il tuo cuore e spera nel Signore“. (RB 7, 35-37)

Bernard Sawicki Osb

Coordinatore dell'Istituto Monastico Pontifico Anteneo Sant'Anselmo, Roma anselmianum.com