La negazione dei peccati, un inganno a sé stessi

Due uomini salirono al tempio a pregare. Questi due erano, ufficialmente, il migliore (il fariseo), e il peggiore (il pubblicano). Del fariseo ci viene tracciato il  , proprio mentre si rivolge a Dio in preghiera, in un momento densissimo di significato, perché nella dimora del tre volte Santo. E’ una descrizione unica nei Vangeli, che va considerata con attenzione. Il fariseo stava in piedi, a suo agio, con gli occhi verso il Santo dei Santi, dimostrando di conoscere il ringraziamento, come del resto è sempre doveroso e ben presentato dalle Scritture. Ringrazia, ma solo perché s’illude di essere un giusto. Ringrazia formalmente, perché attribuisce il suo presunto essere giusto non all’iniziativa di Dio, ma alle cose che fa lui: due volte alla settimana digiuna e anche paga la decima sulle erbe odorifere, che potevano non essere considerate.

Ringrazia, ma vantandosi di non essere “come gli altri uomini, ladri, ingiusti…”. Egli si ritiene un giusto, anche se duro di cuore, impietoso verso i bisognosi, di fronte ai quali non doveva fare valere il versante egoista dell’interpretazione della legge, quello che non tiene conto delle circostanze del bisognoso, ma quello della vera giustizia, che non può mai essere inesorabile giustizia. In ciò molti pagani facevano meglio. Cicerone ci ha lasciato un proverbio comune, che riguardava i casi dove la legge non doveva essere applicata in modo rigoroso (De Officiis, I, 10, 33): “Summus ius, summa iniuria”. 

Il pubblicano ufficialmente ladro, esoso, venduto al dominatore romano, ci viene descritto come capace di pentimento di fronte alla maestà di Dio. Il pubblicano prega e supplica Dio, ma non suscita la pietà del fariseo, che viene usato solo come termine di confronto per esaltarsi. Il fariseo deplora i ladri, i pubblicani, ma gli sono funzionali, altrimenti gli mancherebbero i confronti. Non una preghiera per il pubblicano, anch’egli discendente di Abramo (Lc 19,9), ma solo un duro giudizio. Non un pensiero sull’esempio che gli dà quel pubblicano, che sta pregando con gli occhi a terra, non osando alzarli verso il cielo, e battendosi il petto. Il ringraziamento a Dio del fariseo, è in realtà un monologo: “pregava così tra sé”, e non rivolto a Dio. Si può dire che era una vera irriverenza ringraziare Dio per il suo ignorare Dio. Ai nostri giorni non mancano ringraziamenti del genere. Gue Pequeno (1980) – tanto per citarne uno – ha detto: “Sono ateo grazie a Dio”. Vera ignoranza perché l’ateo non esiste; esiste solo il negatore (Rm 1,21).

La parabola descrive il peggio di un fariseo, ma non mancavano esempi perfettamente calzanti con la parabola, come il Vangelo ci presenta. Il fariseo non ebbe un accenno ai propri peccati, sicché Dio potesse perdonarlo in qualcosa. Uscì dal tempio con un peccato in più. Il pubblicano invece riconoscendosi peccatore e invocando pietà uscì dal tempio giustificato, cioè con il perdono che lo riabilitava davanti a Dio. E’ una parabola e come tale è passibile di applicazioni. La prima è che spessissimo ci riteniamo giusti confrontando i nostri peccati con quelli più grandi degli altri. Addirittura questo confronto è l’alibi per dirci “senza peccati”, e che se tutti “fossero come noi” il mondo andrebbe benissimo. Nessuno però è senza peccato e chi dice di esserlo è un bugiardo (1Gv 1,8: “Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi”).

Altro punto è credere che siamo giusti per i soli nostri sforzi, mentre nulla possiamo senza l’aiuto di Dio. Con tale animo preghiamo presentando le nostre opere, senza considerare l’iniziativa misericordiosa di Dio, che ci ama per primo, e che lui ha più voglia di esaudirci, che noi di chiedergli qualcosa. Altro punto è l’insensibilità per i peccatori, non pregando per la loro conversione. Un altro ancora è che dobbiamo chiedere aiuto a Dio per guardare bene i nostri peccati al fine di non ripeterli. Il fariseo non li vedeva e non li voleva vedere; noi invece chiediamo di vederli, non per scoraggiarci, ma per migliorarci.

Il male del fariseo era profondo, perché oscurava il comandamento dell’amore a Dio e al prossimo, a favore di tutte quelle prescrizioni che come una coltre mortale i farisei avevano steso sopra la Legge (Mc 7,1-13). Gesù la toglierà quella coltre mortale, che possiamo definirla, usando un linguaggio corrente, coltre del comodo e dell’egoismo, mettendo in viva luce la Legge, per portarla a compimento (Mt 5,17). Gesù concluse la parabola con questa sentenza: “Chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”. Una sentenza che vale anche quando siamo umiliati dagli altri, infatti dobbiamo umiliarci anche nell’umiliazione, perché l’umiltà, per essere, deve essere capace anche di questo.