Il Verbo si è incarnato nei cristiani perseguitati

“Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Questo brano del Vangelo giovanneo, che si proclama il giorno di Natale segue alla pericope che viene proclamata nella Notte Santa, quella del presepe (Lc 2,14). Nella Notte tutto è avvolto da un calore umano particolare, che tanto commuove. Con il Vangelo del giorno (Gv 1,1-19) l’aspetto intimo e familiare della nascita di Gesù nella stalla di Betlemme sembra cedere il posto alla grandezza solenne del mistero. Nel bel mezzo di questa visuale misteriosa e solennissima diventa di colpo visibile la stalla, in cui il Figlio di Davide fu costretto a nascere, perché non c’era posto per lui in città. Il pensiero non potrebbe non andare a quei cristiani che, in ragione della loro appartenenza a Cristo, soffrono emarginazione, persecuzione, irrisione, sono oggetto di numerosi soprusi limitativi della loro libertà e, sovente, si trovano in continuo pericolo di vita. Non c’è posto per loro laddove certi regimi politici che si reggono sull’errore, sulla violenza e sulla falsità o laddove il fanatismo intollerante regnano incontrastati e, talora, con l’appoggio cinico di forze occulte che tutto manovrano a questo mondo.

Non ricordare, non pregare per essi, non aiutarli in ogni modo possibile, ci impedirebbe di “far Natale”! Se celebrassimo soltanto l’idillio della nascita e dell’infanzia, alla fine non ci rimarrebbe più l’eterno ciclo del morire e divenire e ci potremmo allora domandare se la nascita non sia cosa triste, visto che conduce solo alla morte. Per questo è tanto importante che si sia verificato qualcosa di più: il Verbo si è fatto carne! Questo bambino è il Figlio di Dio, ci ripete in varie forme la liturgia natalizia. Si è verificato l’incredibile, l’impensabile, che pure è nello stesso tempo l’atteso e il necessario: Dio è venuto fra di noi, si è unito in maniera così inseparabile con l’uomo che quest’uomo è realmente Dio da Dio, luce da luce, pur rimanendo vero uomo. Il senso eterno del mondo si è avvicinato realmente a noi in misura tale che lo possiamo toccare e contemplare (cf 1 Gv 1,1). Quel Verbo è la Parola indirizzata a noi. Ci conosce, ci chiama, ci guida. Si rivolge in modo personalissimo a ognuno. E’ una persona, il Figlio di Dio vivo dato alla luce nella grotta di Betlemme. Dio è buono, Dio non è un sommo essere lontano, cui non ci avviciniamo mai. E’ vicino, è sempre accessibile, ha tempo per me, tanto tempo da essere rimasto disteso in qualità di uomo nella mangiatoria e rimanere eternamente uomo. Taluni si chiedono: ma è possibile tutto questo? Non vogliamo credere che la Verità è Bella! Eppure è così.

Quel Bambino, il Verbo, è venuto per tutti, per ogni uomo. Ma i “suoi non l’hanno accolto”: l’abissalità di questa proposizione non si esaurisce con la storia della ricerca di un alloggio, né si esaurisce con un appello morale a pensare ai senza tetto delle nostre città, per quanto questo sia per noi, doveroso e, ineludibile: sia ben chiaro! Ma l’affermazione tocca qualcosa di molto più profondo, nascosto dentro di noi, la ragione più intima per cui la terra non offre alcun riparo a tanta gente: il nostro orgoglio, che chiude la porta in faccia a Dio e, di conseguenza, anche agli esseri umani. Il Natale ci insegna che quel Bambino è il segno più sconvolgente dell’amore di Dio. Se Natale è tutto questo, allora l’uomo, assunto da Cristo, è ormai inseparabile da Dio ed è sacro. E questo è gravido di conseguenze. Ogni uomo è Lui. Nell’uomo devo incontrare Dio. A livello di fede non c’è più spazio per una semplice filantropia. Ogni incontro con il fratello deve tradursi in un incontro con Cristo. Occorre invocare la luce dello Spirito Santo perché ci aiuti a scoprire nel Bambino di Betlemme il volto umano di Dio e in ogni nostro fratello il volto divino del Signore. Si diventa allora solidali con tutti i drammi dei fratelli. Non c’è situazione – e penso alla persecuzione, alla violenza inferta e subìta, alle oppressioni e alle ingiustizie- in cui io non mi senta coinvolto in prima persona. Rimanerne fuori significherebbe escludere Cristo dalla propria vita. Potremmo forse non sentirci coinvolti innanzi ai drammi vissuti “ordinariamente” da tanti fratelli nella fede e in umanità?

Preghiera fervida, sentendoci un solo corpo, aiuto spirituale e materiale, per quanto possibile, ai nostri fratelli che soffrono, non va disgiunto dal dovere di pregare anche per la conversione dei persecutori, per il crollo delle strutture di iniquità e di impegnarci, nel nostro piccolo, per la promozione di una cultura che promuova a tutto tondo la libertà religiosa, madre di tutte le libertà, la legge naturale lievito di ogni possibilità di dialogo fra le culture, un autentico progresso che, proprio perché autentico, non sia unidimensionale ma sappia promuovere l’uomo nella interezza del suo essere. Lasciamoci aprire gli occhi dal mistero del Santo Natale, lasciamoci rischiarare. Allora vivremo poi come coloro che vedono, come persone che non pensano solo a sé e non conoscono solo se stessi. Le offerte più generose che facciamo in occasione delle feste natalizie in favore della Chiesa che soffre, in spirito di solidarietà comunionale, potrebbero essere una piccola risposta all’appello del Natale, un segno che abbiamo imparato ad ascoltare e a vedere, che riconosciamo Dio come il vero proprietario anche dei nostri beni. Così diventeremo a nostra volta portatori della luce che viene da Betlemme e potremo pregare fiduciosi: Venga il tuo regno”, Venga la tua luce. Venga la tua pace. Venga la tua gioia!

card. Mauro Piacenza – penitenziere maggiore presso il Tribunale della Penitenzieria Apostolica e presidente internazionale della Fondazione di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che Soffre