Il significato dell’adorazione

Adorare è espressione della mente e del cuore dell’uomo, come fatto che gli è connaturale di fronte alla potenza e alla trascendenza della maestà divina. Per definirla non occorrono molte parole, anzi più ne usiamo meno riusciamo a dire qualcosa. Quello che si deve dire è che cosa significa adorare. Vuol dire amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze (Dt 6,4; Mt 22,37); servendolo nel suo disegno di amore per tutti gli uomini. Servirlo non perché abbia bisogno di ascoltare canti, di avere incensi, funzioni, per non annoiarsi, poiché la noia non esiste in assoluto in Dio, ma perché ciò serve a noi per rivolgerci con intensità a lui, collaborando con lui, per suo dono, nel comunicare – noi che abbiamo ricevuto la rivelazione di lui – la sua conoscenza agli uomini, affinché abbiano in comunione con noi la vita (1Gv 1,3).

Di fronte alla realtà sovrana di Dio, l’uomo sente che la sua esistenza è relativa a Lui, e riconosce, con luce viva, i propri limiti e la necessità di aiuto per entrare in rapporto con Lui, che già dà notizia di sé nella potenza delle cose create (Ps 18). Di fronte alla bellezza del Creato l’uomo avverte un disagio interno, poiché quella magnificenza gli dice di essersi fatto brutto. Brutto nell’aver voluto appropriarsi delle cose create, rubandole a Dio, che gliele ha donate perché le usi rettamente e ne resti stupefatto di gioia. E’ terribile avere rubato a Dio i suoi doni. I doni si ricevono non si rubano, e se si rubano non sono più visti come tali venendo così ad essere contaminati dalla mano iniqua del ladro. E’ quella caducità che la creazione ha subito e subisce a causa dell’uomo (Rm 8,20).

Furto per non ringraziare, per deformare, per fare tacere le cose di Dio, che però parlano, gridano, denunciano il crimine, e alla fine si mostrano ribelli al ribelle a Dio. Chi ha, in un momento di luce, visto questo, ha visto bene di avere anche rubato se stesso a Dio. Bisogna ridarsi a Dio, ma l’uomo si trova nell’impotenza a farlo. Vorrebbe adorare Dio, dopo averlo disprezzato con il peccato, ma la sua adorazione è carica di timore, di paura. Allora si nasconde come Adamo. Fugge come Giona, come Elia nel deserto, ma Dio non lo abbandona, lo insegue, lo interpella.

E’ la misericordia di Dio che cerca: “Adamo dove sei?”. Il dolore di Dio di fronte alla fuga da lui: “Adamo dove sei?”. La fuga da Dio è inutile illusione, Egli è Colui che è, che ha l’essere di per sé, che è l’assoluto, non è relativo a nulla. Da lui non si può fuggire, ci si può solo sottrarre (Ps 139,7-8): “Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti”. Eppure l’Infinitamente trascendente, l’Altissimo, si fa vicino, si piega a cercare l’uomo (Ps 8,5): “Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?”. Cercato, l’uomo capisce che non deve più fuggire, e cerca allora Colui che lo cerca; lo fa nell’unico modo che ha: liberandosi dal male dove era finito, per essere trovato e rinnovato. “Adamo dove sei?” è richiamo di Dio che fa vedere al primo uomo dove è finito: nascosto, pieno di paura. Adamo esce dai suoi nascondigli e comincia a camminare alla presenza di Dio, obbedendo alla voce interna della coscienza e ai dolci impulsi della grazia. Adamo lo cerca cercando il suo volto, cioè il favore di Dio, la comunione con Dio, ma senza risultato se punta su se stesso: poco vede, nulla può (Gv 15,8). Da solo non può guarire se stesso, se cerca di medicarsi da solo si ammala ancora di più. Ha bisogno del medico divino.

La bellezza delle cose, che con mano colpevole ha afferrato, gli fa vedere quanto è diventato brutto. Si è fatto del male, ha svalorizzato se stesso. Ritira la mano ladra e contaminatrice, chiede perdono, e allora comincia ad adorare Dio. Questo non è mai l’atto di un uomo terrificato dalla presenza di Dio, poiché mai il Signore invita a sé terrificando. Questo spiega l’etimologia ad os, cioè mandare un bacio con la mano, accompagnato da un riverente inchino di sottomissione, o da una prostrazione per dire il proprio niente, o da un mettersi in ginocchio, con sguardo supplice, ma pur di figlio.

Dio costituì un popolo, al quale fece delle promesse tutte centrate nella prospettiva di un evento: Cristo. Questo popolo era brutto, infangato dalla permanenza nell’Egitto, dove tutto era furto a Dio, e furto di dolore. Perché i doni rubati erano tanto deformati da farli diventare da cose create da Dio, delle divinità. Rubato il sole, rubata la luna, rubato il Nilo, rubata la vegetazione, rubata la terra, rubato l’uomo a Dio, e tutto diventava dio, in una ricerca di organizzazione mitica delle divinità che alla fine faceva trapelare, pur negandolo, l’esistenza di Uno. Dio non sarà mai oscurabile: la Sua morte non accade mai totalmente nella mente di un uomo, anche quello che lo nega di più. Un popolo che ebbe una legge su tavole di pietra e una accurata legislazione che riguardava la scorza dell’uomo, in attesa di una nuova che parlasse al cuore (Dt 18,15; Os 2,16).

La legge fece vedere bene il peccato, ma c’era l’inconveniente che si pensasse di essere perdonati con poco, con pratiche rituali. No, il perdono è cosa che viene dall’amore e Dio quando perdona non solo non imputa più le colpe, ma eleva a sé. Qui la dottrina Luterana della non imputazione trova la sua smentita: l’uomo perdonato è anche elevato, rinnovato, gli viene data libertà dal peccato, le catene della schiavitù sono spezzate.
Il peccato per essere cancellato in tal modo aveva bisogno di un amore immisurabile, perché rivolto ad una comunione d’amore tra Dio e l’uomo, fatto figlio.

L’adorazione è con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze, senza sgabuzzini nascondenti idoli più o meno perfidi. Con il cuore, perciò con sentimento, con tutto il sentimento: quello di un amico per l’Amico, di un figlio per il Padre, di una sposa per lo Sposo, di un discepolo per il Maestro, di un servo per il Padrone, di un padre (Cf. 1Cor 4,15) o di una madre (Cf. Mt 12,49), poiché chi adora vuole servire Dio, portando a Lui gli uomini, generandoli con la preghiera, il sacrificio, nell’Unigenito Figlio, morto e risorto per noi, unico e necessario Salvatore. Necessario perché nessuno può riscattare se stesso (Ps 48,8) dal male senza che lo sia per mezzo di Cristo; nessuno può medicare se stesso, senza ricorrere al Medico celeste.

(Gv 4,23): “Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità”. E’ giunto il tempo anche per noi, per ciascuno di noi. Adorare è dare intensità piena all’amore a Dio. E’ giungere ad amare in quella profondità data dall’umiltà e dall’obbedienza a Lui, senza riserve. E’ presenza di vita stabilita nel centro più centro del nostro cuore: non prevale più l’afflizione dell’essersi fatto del male, cosa che rimane diventando però pentimento (Cf. 2Cor 7,10), ma per avere dato dolore a Colui che è Amore. L’adorazione, così, è viva di lode, di ringraziamento, di santo e magnifico timore di Dio.

In spirito”: non più con gesti di culto esterno, poiché il cuore è il luogo del culto. “In verità”: sapendo che Dio ha tanto amato il mondo da mandare e da dare il suo Figlio; e il Figlio ha tanto amato il mondo da dare la sua vita affinché il mondo viva; e lo Spirito Santo ha tanto amato il mondo da inviare da tutta l’eternità un palpito d’amore al Padre per il decreto eterno dell’Incarnazione salvifica del Figlio, e tanto ama il mondo da essere fuoco che rende ognuno offerta viva a Dio in Cristo. Fuoco non materiale come già un tempo (Cf. 1Cr 21,26), ma spirituale, per offrire sull’altare del nostro cuore, in Cristo, un mistico olocausto gradito a Dio (Cf. Ef 5,2). Spirito Santo, acqua viva che irrora la terra per farla diventare giardino della redenzione. Adorare Dio è amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze.

Padre Paolo Berti, membro del Gris