Il senso cristiano del dolore

In occasione della XXVI Giornata del Malato, Il Santo Padre Francesco, nel suo messaggio, ha proposto la riflessione a partire dal brano del Vangelo di Giovanni, al capitolo 19:

Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé. Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: “Ho sete”. Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: “È compiuto!”. E, chinato il capo, consegnò lo spirito“.

Donna, ecco il tuo Figlio… Ecco tua madre. Sono le ultime parole che Gesù rivolge alla madre e al discepolo amato. Gesù, in croce, anziché soccombere alla disperazione, consegna tutto nelle mani del Padre e diviene capace di donare: ai crocifissori dona le vesti, alla madre il discepolo amato, e al discepolo la madre.

A livello simbolico, come riferisce Silvano Fausti, “madre e donne da una parte e discepolo amato dall’altra sono rispettivamente figura dell’amore dato e dell’amore ricevuto. La madre, con le sue compagne, rappresenta chi dà amore. Questi è innanzitutto il Padre nei confronti del Figlio, poi Dio nei confronti dell’universo, il Figlio nei confronti dei fratelli, Gesù nei confronti del discepolo, Israele nei confronti della Chiesa, la Chiesa nei confronti del mondo, e così via fino alla più piccola delle creature” (S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Giovanni, Edb-Ancora 2014, p. 485).

La scena evangelica ci apre pertanto ad un orizzonte profondo, in cui l’amore, dato e ricevuto, diviene la cifra ermeneutica dell’evento del Golgota: chiunque riceve amore è immagine del Figlio, amore amato.

Ma come rileva ancora lo stesso Fausti, “di amore dato si muore e di amore ricevuto si soffoca: si vive solo quando l’amore amante è amato e l’amore amato è a sua volta amante” (Cf 485).

La croce, quindi, manifesta il massimo di questa reciprocità di amore, tra Padre e Figlio, nello Spirito Santo; e tra La Trinità e il mondo intero.

Il Figlio, nel grido di abbandono, si svuota di tutto se stesso per darsi totalmente a noi che, mediante il dono dello Spirito, possiamo gridare Abba-Padre. È la dinamica trinitaria dell’amore che non smette di manifestarsi nemmeno nella sofferenza e nel dolore ma che, anzi, proprio da qui, rivela tutta la sua forza.

Nella II Lettera ai Corinzi, al capitolo 12, versetti 9-10, san Paolo dirà: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte”.

Nel momento, cioè, in cui si sperimenta la propria debolezza, è qui il luogo in cui si manifesta la potenza di Dio, che non abbandona, non lascia soli, ma diventa sostegno e forza nella misura in cui cresce la nostra unione con il Signore e si fa intensa la nostra preghiera. Proprio in questa prospettiva, quella cioè della nostra creaturalità, possiamo comprendere che non è la potenza dei nostri mezzi che realizza il Regno di Dio, ma è Dio che opera meraviglie proprio attraverso la nostra debolezza.

La Chiesa, in particolare, è chiamata a testimoniare come proprio nella debolezza e nella fragilità si manifesta la potenza redentrice e rinnovatrice della grazia divina. Nel suo Messaggio per questa giornata, Papa Francesco così commenta: “Questa vocazione materna della Chiesa verso le persone bisognose e i malati si è concretizzata, nella sua storia bimillenaria, in una ricchissima serie di iniziative a favore dei malati. Tale storia di dedizione non va dimenticata. Essa continua ancora oggi, in tutto il mondo […] Ovunque essa cerca di curare, anche quando non è in grado di guarire. L’immagine della Chiesa come 'ospedale da campo', accogliente per tutti quanti sono feriti dalla vita, è una realtà molto concreta, perché in alcune parti del mondo sono solo gli ospedali dei missionari e delle diocesi a fornire le cure necessarie alla popolazione” (http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/hlthwork/documents/hf_jp-ii_apl_11021984_salvifici-doloris_it.html)

Non si tratta solamente di un’azione etica di attenzione nei confronti dei malati, ma anche, e soprattutto, di una testimonianza che consiste nello svelare l’ontologia della fragilità: un’ontologia che custodisce una trascendenza, o meglio una Presenza. La presenza di Dio stesso che ha deciso di assumere totalmente questa fragilità per mostrare la sua forza e la sua potenza redentrice.