Conversione del cuore e sinodalità

Chiesa è nome che sta per sinodo”, ha ricordato più volte Papa Francesco riecheggiando San Giovanni Crisostomo; “Quello che il Signore ci chiede, in un certo senso – dice sempre il Papa – è già tutto contenuto nella parola ‘sinodo’”. Ne sono consapevoli i diaconi che hanno visto “ripristinare” il loro servizio ecclesiale, dopo secoli di ibernazione, con il cammino sinodale del Concilio Vaticano II, perché quando la Chiesa riscopre l’egemonia della Parola di Dio e vive l’Eucarestia come sua fons et culmen, allora riscopre anche i poveri e il significato più profondo della diaconia. I più esperti conoscitori delle dinamiche ecclesiali sostengono che per recepire gli impulsi e le novità che suggerisce lo Spirito in un’assise conciliare, solitamente s’impiegano circa cento anni. Se è così, e se, come sembra, quello della sinodalità, realmente e autenticamente intesa, è uno strumento che può favorire una piena e sinfonica, ma non per questo unanime, riflessione ecclesiale, allora anche la realtà del diaconato, la sua recezione, secondo lo Spirito del Concilio, risulta immersa in questo lento processo.  

In questa luce è preziosa, originale e propositiva la lettura consegnata nel n. 213 della rivista dei diaconi. Con diversi e apprezzati contributi, il tema della sinodalità è presentato sia a partire dalla sua origine, natura e identità, che attraverso due concrete esemplificazioni: il sinodo dei giovani e la collaborazione tra presbiteri e diaconi. Lo spunto è dato dall’analisi del testo della Commissione Teologica Internazionale su “La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa”.

Il teologo e monaco benedettino, padre Ghislain Lafont, profondo conoscitore del Concilio, ha affrontato il tema: “Percorso sinodale e riforma liturgica”. Si può parlare di una “riforma della riforma liturgica” di Paolo VI? “La mia prima reazione riguardo a questa idea di riforma della riforma è: perché no?”, scrive padre Lafont. La possibilità di “un rimaneggiamento” o anche di “una riorganizzazione” per l’anziano padre benedettino, trova già delle esemplificazioni nella storia della Chiesa e nella successione tra un Concilio ed un altro. Fermo restando che “se un concilio legittimamente convocato decide una norma riguardante la preghiera quotidiana della Chiesa e ne definisce i termini”, ciò ha un peso dogmatico. Per questo, se si dovesse intraprendere una “riforma della riforma”, bisognerebbe seguire una “procedura sinodale”, con onestà e rigore, dal pronunciamento del Papa fino alla consultazione delle Chiese particolari e finanche degli istituti di liturgia. 

Il contributo di don Massimo Nardella, “La fatica dell’essere chiesa”, chiarisce la correlazione tra sinodo e sinodalità, mostrando come un autentico cammino in ascolto dello Spirito comporti necessariamente fatica e lunghezza dei tempi. Illuminante, al fine d’interpretare l’attuale querelle ecclesiale, l’individuazione di tre fraintendimenti, o “patologie”, che possono rallentare i processi sinodali. Quella più grave, per il teologo sistematico emiliano, è “il ritenere che esso possa produrre un consenso così ampio da consentire decisioni condivise”. Questo non accade quasi mai, anzi la sinodalità “consegna sempre ad una comunità cristiana una serie di soluzioni contrastanti“. Tuttavia, aggiunge don Nardella, “occorre accettare che, al termine di un percorso di discernimento comunitario, il pastore debba prendere delle decisioni che sono necessariamente discutibili“. Secondo fraintendimento: “elaborare decisioni programmatiche senza verificare la loro attuazione nella vita delle comunità cristiane“. Terzo: “fissarsi sui problemi di partenza“, senza rischiare di “cambiare le domande con cui si è cominciato a riflettere”.

Il teologo sistematico don Piero Coda, analizzando nel dettaglio il documento sulla sinodalità della Commissione Teologica Internazionale, ha definito una corretta pratica sinodale sia come una sfida che una chance, proponendo un intreccio coerente di chiavi di lettura. La sinodalità come kairòs, “un momento propizio e interpellante della missione della Chiesa”, come “la costante che descrive la novità profetica del Popolo di Dio”, per cui è necessario approfondire la teologia della sinodalità e le “modalità specifiche in cui si esprime la prassi sinodale del Popolo di Dio”, per saper accogliere quello “stile sinodale della conversione del cuore”. Ma la sinodalità entra anche in relazione con i concetti di comunione e collegialità. Senza partecipazione e corresponsabilità di tutti i battezzati, non c’è infatti dinamismo sinodale.

La sinodalità allora non va intesa come un fare ma, se si lascia ispirare dal Vangelo, scrive don Giuseppe Bellia “ci ricorda che si deve percorrere la via angusta della spoliazione, della diminuzione, della kenosi, se si vuole entrare per la porta stretta che conduce alla vita”. La sinodia nasce dalla relazione con Gesù, appare quindi come oggettivazione di un dono che viene dall’alto. Era necessaria questa carrellata di riflessioni e contributi per riconoscere il senso specifico di una sinodalità che possa portare frutto assestandosi come stile interiore e  permanente della Chiesa.

La rivista accoglie anche l’interessante contributo di Monsignor Mario Delpini, Arcivescovo di Milano, che presenta il cammino sinodale dei giovani come un attraversamento del deserto verso la terra promessa. Itinerario nel quale sarà decisiva la relazione tra le generazioni. Il diacono Enzo Petrolino, approfondisce, infatti, lo stile sinodale che vede collaborare insieme preti e diaconi, focalizzando l’attenzione sulle risorse della prossimità e condivisione, nella consapevolezza che “il diacono è chiamato a incarnare un ruolo profetico nella Chiesa”, e che ci sono alcuni ambiti, a loro volta profetici, come “lo spazio sociale” che rimanda alle “questioni del lavoro, dell’economia e della politica”. A partire da questi luoghi i diaconi potranno “coltivare l’esigenza di una sintesi tra fede e vita, tra morale e attività umane e una testimonianza di carità evangelica”.