Un bambino con la maglietta a rovescio

Può la morte per leucemia di un bambino di soli otto anni suscitare un’esperienza di fiducia e di speranza per i suoi genitori? Sì, perché un miracolo come questo è accaduto per esempio a Stefano Bataloni e Anna Mazzitelli, coniugi romani che, alla notizia della malattia del figlioletto Filippo, morto ormai quasi quattro anni fa, hanno intrapreso un cammino interiore che ha dato loro la forza di vivere la difficile prova aprendosi a una nuova visione dell’esistenza. Abbiamo intervistato Stefano Bataloni, biologo, curatore del sito “Piovono miracoli” e co-autore assieme alla moglie del libro Con la maglietta a rovescio. Storia di Filippo Bataloni (Edizioni La Porziuncola, Assisi 2018, pp. 144, € 13) in cui raccontano la loro vicenda familiare e che sarà presentato a Roma il prossimo venerdì 23 marzo (libreria “la Feltrinelli”, via Appia Nuova 427, ore 18).

In una delle sue prime Udienze generali, quella del 15 maggio 2013, Papa Francesco richiamò l’attenzione sul fatto che non si può essere cristiani solo in alcuni momenti o in alcune circostanze ma lo si deve essere sempre, tanto più “in un’epoca in cui si è piuttosto scettici nei confronti della verità”. Come vedi oggi la situazione, soprattutto riguardo l’esercizio, da parte dei genitori, del diritto/dovere di educare?
“Per l’esperienza che ho con i miei figli direi che educare e, soprattutto, ‘educare alla verità’ è un compito quanto mai necessario. L’educazione alla verità è qualcosa che porta i suoi frutti in tanti ambiti della vita, penso, ad esempio, alla scuola, alla vita in famiglia, ma anche alla vita sui social network che oggi hanno una parte così importante nelle vite dei nostri figli. E poi riscontro che i ragazzi hanno una grande sete di verità, capiscono immediatamente quando gli diciamo una mezza bugia o quando non andiamo abbastanza a fondo nelle spiegazioni. Per quanto ci riguarda, io e Anna – mia moglie – abbiamo sempre cercato di soddisfare questa loro sete, cercando il linguaggio adatto, senza nascondere nulla di importante, senza avere il timore che loro non sappiano gestire l’eventuale sofferenza che talvolta implica il conoscere la verità. Per nostra esperienza i figli soffrono molto di più per una bugia che gli viene detta, magari da parte di una figura su cui loro fanno affidamento, piuttosto che per una cruda verità. Impegnandosi in questo modo, dando loro confidenza con la verità, sono convinto, i nostri figli possono ricevere una buona educazione, che li aiuterà a scoprire e a tirare fuori ciò che di vero c’è in loro.

Da genitore cosa pensi non vada in particolare oggi nella situazione della famiglia e del matrimonio, con le relative ricadute nei confronti dei bambini?
“Personalmente ritengo che il rifiuto dei più piccoli e dei più deboli sia quanto di più contrario alla natura umana ci possa essere. Credo infatti che l’essere umano di fronte a un ‘piccolo’ o una persona ‘debole’ sia naturalmente spinto verso l’accoglienza e l’amore. Purtroppo, però, questa spinta deve fare i conti con la tendenza innata a soddisfare i nostri desideri, con la ricerca esasperata dei nostri spazi e dei piaceri. E allora, secondo me, è proprio lì che feriamo i nostri figli, quando ci rifiutiamo di dare loro ciò di cui hanno bisogno perché non siamo disposti a pagarne il prezzo. Questo lo vediamo accadere in tanti casi che le cronache tristemente ci portano all’attenzione ma capita anche nelle nostre famiglie, nella vita quotidiana di tutti noi. In fondo amare e accogliere significa donarsi, ma donarsi oggi è sempre più difficile. Parlo del donarsi alla propria moglie, al proprio marito e ai figli, tutto ciò sembra aver perso ogni senso”.

Secondo te è più difficile oggi o negli anni in cui noi eravamo bambini noi crescere un figlio nella Fede?
“Credo che le difficoltà di oggi rispetto al passato siano diverse. La mia prospettiva è quella di uno nato agli inizi degli anni ’70 e, pertanto, ho vissuto da bambino gli effetti dei cambiamenti sociali del periodo turbolento che ha preceduto la mia nascita. Sono cresciuto in una famiglia molto poco praticante e dopo la prima comunione ho abbandonato la Chiesa, salvo poi riaccostarmi con la conoscenza di mia moglie. Il pensiero va ai miei nonni, che erano costretti a crescere i miei genitori durante la guerra, in un periodo in cui l’essere umano in quanto tale veniva calpestato sotto i loro occhi e il dolore e la sofferenza erano pane quotidiano. Per esperienza posso dire di aver conosciuto molte persone che di fronte al dolore hanno reagito maledicendo Dio piuttosto che cercando il suo aiuto. D’altra parte è proprio in periodi molto bui che la Fede può raggiungere vette straordinarie: mi viene in mente l’esempio di San Massimiliano Kolbe che, pur oppresso e violentato in un campo di concentramento, ha donato la sua vita al Signore con il sorriso. Certo, forse in passato la Fede era un dono accolto da molte più persone, era più facile trovare linguaggi comuni e punti di unione. Oggi, invece, la violenza verso l’essere umano, il dolore e la sofferenza si manifestano in maniera più subdola così come, mi sembra di poter dire, che la ricerca di Dio sia meno evidente ma non meno profonda. Voglio guardare a questo tempo, in cui certamente Dio è messo un po’ da parte, come una occasione per un nuovo inizio, per un rilancio della Fede”.

Da padre di tre figli, ci puoi parlare sulla base della tua esperienza personale di come hai messo in pratica i principi dell’educazione cristiana?
“I nostri figli sono nati quando per me e Anna la Fede era già qualcosa di fondamentale nelle nostre vite. Per noi la preghiera era già un momento imprescindibile della giornata, così come lo erano la partecipazione alla Messa domenicale o ai sacramenti. Ci è venuto spontaneo, quindi, non rinunciare quasi mai a condividere con i bambini questi momenti, anche quando si faceva un po’ più di fatica perché erano piccoli e richiedevano molta attenzione, attenzione che dovevamo sottrarre alla preghiera o alla messa. Ricordo, ad esempio, che quando Filippo il nostro primo figlio ha cominciato a muovere i suoi primi passi era normale che durante la Messa, al momento della Consacrazione, se ne andasse passeggiando di fronte l’altare; non ci siamo mai posti il problema che questo potesse arrecare grande disturbo al sacerdote o all’assemblea. Ci sembrava invece importante che lui prendesse confidenza con quegli spazi. Crescendo poi abbiamo cercato di legarci alla realtà parrocchiale, facendo loro conoscere altri bambini che condividono il loro stesso percorso, anche di Fede. Ci siamo sempre sforzati di mostrare loro il bello e il vero che c’è dentro una vita di Fede piuttosto che costringerli a viverla a tutti i costi o solo per fare contenti noi. Il lavoro più grande, comunque, lo facciamo a casa, specialmente la sera, prima di dormire, quando si ripercorre un po’ la giornata e c’è modo di trovare insieme il senso e la spiegazione a quello che è accaduto. È in quel momento che noi cerchiamo di offrire la nostra chiave di interpretazione della realtà che viene dalla nostra Fede in Cristo Risorto”.

Quanto è stato importante l’impegno nel trasmettere la Fede ai vostri figli alla luce delle vicende che avete vissuto e che sono state legate alla malattia e alla “nascita in cielo” di Filippo?
“La malattia di Filippo, e poi la sua nascita al Cielo dopo gli anni della sua malattia, hanno chiamato me e Anna ad un grande impegno nel trasmettere la Fede ai nostri figli. Siamo stati chiamati in un tempo tutto sommato breve e, date le condizioni di salute di Filippo, con pochi aiuti esterni (mi viene in mente però Tiziana, la bravissima maestra di religione che aveva in ospedale!) a dare una concreta testimonianza della luce di Cristo Risorto. A Filippo è stato necessario cercare di sostenerlo e di dare un senso alle sue sofferenze e al suo dolore e, nelle ultime settimane, cercare di aprirgli la prospettiva della Vita Nuova, della Vita Eterna. A Francesco, che era già grandicello alla morte di Filippo, è stato necessario cercare di dare un senso alla perdita del fratellino. Come accennato, i bambini hanno una grande sete di verità e per Filippo e Francesco non potevano bastare dei semplici discorsetti, che comunque non sono mancati, sul Paradiso o su Gesù che ci vuole bene. Serviva soprattutto una testimonianza reale, convinta, verace. Dovevamo insomma essere noi a crederci per primi. In qualche modo, il trasmettere la Fede ai nostri figli durante le vicende passate con Filippo ha rappresentato per me e Anna una tappa fondamentale del nostro personale cammino di Fede”.

Perché avete scelto questo titolo così singolare per il libro che avete scritto sulla storia di vostro figlio? Che significa il fatto che Filippo si metteva sempre le magliette al rovescio?
“Filippo aveva la mania di indossare le magliette al rovescio, specialmente quando era in ospedale e non si riusciva a fargli mettere una maglietta al dritto. Non si preoccupava del fatto che si vedessero etichette o cuciture, non gli importava di nascondere i bei disegni che erano sul davanti, che magari erano proprio quelli per cui le magliette gli venivano comprate o regalate. L’unica che ha sempre messo al dritto era quella che gli riportò la nonna da una sua visita in Grecia: era la sua maglietta preferita perché, come diceva lui, era di un ‘arancione preciso’, per dire che trovava perfetto il tono di arancione. Lui le indossava al rovescio perché il suo gioco quotidiano era immedesimarsi in un animale: una volpe (maglietta arancione), un ermellino (maglietta bianca), ecc. Come ha scritto bene don Luigi Maria Epicoco nella prefazione al libro, forse neanche Filippo aveva capito bene quanta ‘profezia’ ci fosse in questo suo gesto: a guardarla con occhi ‘umani’ la vita di Filippo è una vita al rovescio, quello su cui si concentra l’attenzione sono la malattia e le sofferenze, che come cuciture di una maglietta tendiamo a voler nascondere. Invece, è proprio in essa che noi abbiamo trovato una strada di salvezza e di gioia, la vita di Filippo per noi rimanda ad altro, anzi ad un Altro con la ‘A’ maiuscola, ed è perfetta così; esattamente nello stesso modo in cui Filippo era felice di indossare una maglietta di un unico colore perché lo rimandava al suo animale preferito”.