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La mafia come il fondamentalismo

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La mafia strumentalizza la fede per il proprio illecito e immorale tornaconto esattamente allo stesso modo in cui il terrorismo jihadista sfrutta e stravolge la religione islamica per i suoi mondanissimi interessi politici ed economici. Lo hanno ribadito Benedetto XVI e Francesco agli incontri interreligiosi di Assisi: è una bestemmia fare del nome di Dio un pretesto per accumulare ingiustamente potere e ricchezze, infliggendo agli altri sofferenze e soprusi. Calpestare vite innocenti riempendosi la bocca di falsa religiosità accomuna criminalità organizzata e jihadismo. Le ostentate manifestazioni esteriori di devozione dei padrini mafiosi Bernardo Provenzano e Pietro Aglieri come i proclami fondamentalisti dei terroristi islamisti Bin Laden e Abu Bakr al-Baghdadi-

La mistificazione dei clan

Su Vita pastorale, il mensile della San Paolo per gli operatori pastorali, ad analizzare la finta fede dei clan è l’arcivescovo di Monreale, Michele Pennisi, membro del gruppo di studio istitituito due anni fa da papa Francesco in Vaticano per approfondire la minaccia delle mafie alla Chiesa e alla società civile. “Ormai il fenomeno mafioso nelle diverse nomenclature è molto diffuso e va oltre i confini delle regioni meridionali fino a radicarsi in territori una volta insospettabili e in tutti gli ambiti legati soprattutto al potere economico”, osserva il presule siciliano. Nel documento Per un Paese solidale, Chiesa italiana e Mezzogiorno del 2010 si affermava: “In questi ultimi vent'anni le organizzazioni mafiose, che hanno messo radici in tutto il territorio italiano, hanno sviluppato attività economiche, mutuando tecniche e metodi del capitalismo più avanzato, mantenendo al contempo ben collaudate forme arcaiche e violente di controllo sul territorio e sulla società”. Secondo monsignor Pennisi, le mafie, in un ambiente in cui la religione cattolica è radicata nella cultura di un popolo, dedicano una cura particolare ai simboli e alle pratiche della religione cattolica, senza porsi alcun problema sull’evidente contrasto fra quei simboli e la vita quotidiana dei mafiosi. Perciò “la Chiesa che esercita una responsabilità verso l'intera società deve fare i conti con il fenomeno delle varie mafie per esercitare un suo servizio in nome del messaggio di cui è portatrice”. Per l’arcivescovo Pennisi, negli ultimi decenni, dopo un periodo di silenzio, in seguito anche al grave e ripetuto manifestarsi dell'esclusiva natura criminale e dell'estrema pericolosità sociale delle organizzazioni mafiose e, conseguentemente, al crescere di una diffusa coscienza collettiva di rifiuto di forme di tolleranza e di pur tacita e passiva connivenza col fenomeno, è maturata nella comunità ecclesiale una chiara, esplicita e ferma convinzione dell'incompatibilità dell'appartenenza mafiosa con la professione di fede cristiana

Non si può essere cristiani e mafiosi

A una sempre più chiara e netta coscienza della radicale incompatibilità tra mafia e vita cristiana, la Chiesa italiana non può non sentirsi legata. “Essa non può tornare indietro su questa via- sostiene il presule -. Tanto più che questo cammino storico è stato suggellato dalla splendida testimonianza del martirio del beato don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia solo perché fedele al suo ministero, ma anche di tanti altri martiri per la giustizia”. Quindi “la comunità cristiana non può limitarsi alla denuncia del fenomeno mafioso per la prevalente preoccupazione di parlare all'opinione pubblica, ma deve usare parole propriamente cristiane e tipicamente evangeliche, come peccato, conversione, pentimento, diritto e giudizio di Dio, martirio, le sole che le permettono di offrire un contributo specifico alla formazione di una rinnovata coscienza cristiana e civile”.

L'imperativo di formare le coscienze

È compito della Chiesa, secondo monsignor Pennisi, “aiutare a prendere consapevolezza che tutti, anche i cristiani, alimentiamo l’humus dove alligna e facilmente cresce la mafia”. Per la maturazione di questa mentalità sono stati importanti gli interventi dei vescovi e dei papi, che hanno contribuito all’interpretazione e alla condanna della mafia dalle tradizionali e originali categorie cristiane. Il 9 maggio 2018 i vescovi delle Chiese di Sicilia hanno indirizzato una lettera dal titolo Convertitevi per prolungare l’eco dell’appello alla conversione rivolto da san Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, il 9 maggio 1993, alle persone che sono coinvolte nelle trame mortali e peccaminose dell’organizzazione mafiosa. In questo documento, consapevole che il fenomeno mafioso interessa da vicino la Comunità ecclesiale, il suo impegno catechetico, la sua prassi pastorale, la sua azione sociale, l’episcopato siciliano ha ribadito l’incompatibilità tra la mafia e il Vangelo. “La Chiesa, in forza della sua stessa missione, rivolge ai mafiosi l'appello alla conversione- sottolinea l’arcivescovo Pennisi -.Tuttavia essa deve vigilare affinché l'esercizio del ministero di annuncio della misericordia di Dio non sia strumentalizzato dal mafioso, ad esempio durante la sua latitanza, e non si configuri, di fatto, come copertura o favoreggiamento di quanti hanno violato e talvolta continuano a violare la legge di Dio e quella degli uomini”. Dunque, la conversione non può essere ridotta a fatto intimistico, ma ha sempre una proiezione pubblica ed esige la riparazione.

Una struttura organizzativa da debellare

La conversione di un mafioso, evidenzia il presule siciliano, “non potrà certo ridare la vita agli uccisi, ma comporta un impegno fattivo affinché sia debellata la struttura organizzativa della mafia, fonte costante d’ingiustizie e violenza”. C'è un nesso, infatti, tra peccato di cui ci si pente e pena da assumere in espiazione del peccato. Nel caso di peccati legati all'appartenenza mafiosa, la “soddisfazione” del peccato è da vedere anche nelle pene sancite dalla condanna detentiva della magistratura, alle quali perciò il mafioso convertito potrebbe cercare di non sottrarsi. Alla comunità cristiana, secondo monsignor Pennisi, si richiedono “dei gesti originali che facciano superare la concezione della pena di carattere vendicativo, e che interpellino cattolici e laici a interrogarsi sui modi di una prevenzione dei reati collegati col fenomeno mafioso, impegnandosi per la diffusione di una cultura della legalità e all’educazione a non fare del denaro e della ricerca smodata del potere gli idoli cui sacrificare tutto a partire dalla vita delle persone”.

Giacomo Galeazzi: