Siria: vincitori e vinti

Il tribolato scenario siriano perde uno dei suoi principali protagonisti degli ultimi sanguinosi anni: gli Stati Uniti d’America. Il presidente Trump ha formalmente ritirato le truppe statunitensi dal suolo siriano parlando di “missione compiuta”, di ISIS sconfitto, con il netto disappunto dell’opposizione democratica (sintetizzabile nei tweet al veleno pubblicati da Hillary Clinton) e degli apparati militari dello Stato, che hanno portato alle dimissioni dell’ormai ex Segretario della Difesa, James Mattis

Inversione di tendenza

Proprio le divergenze sorte sull’approccio alla questione siriana hanno convinto “Mad Dog” a farsi da parte dal febbraio 2019, con un Trump sempre più deciso a proseguire sul sentiero “isolazionista”. Gli Stati Uniti d’America pian piano retrocedono nelle aree più calde del Pianeta, rientrando in una dimensione di controllo “regionale”, molto probabilmente accompagnati dalla volontà di diminuire le spese destinate al “controllo” serratissimo di alleati ed avversari. Una scelta di politica estera in controtendenza rispetto agli ultimi trent’anni, contrassegnati da una attività politico-militare a dir poco frenetica ma non sempre sinonimo di grande successo, tra ex-Jugoslavia, Afghanistan, Iraq e Siria.

Risiko siriano

Il quadrante siriano rappresenta, da ormai circa otto anni, il centro degli interessi mondiali legati all’estrazione e al trasporto di idrocarburi, cinghia di collegamento tra il vicino Oriente, l’Oceano Indiano ed il bacino mediterraneo. Russia, Stati Uniti, Iran, Turchia ed Israele operano in un contesto a dir poco difficile, lo scenario siriano degli ultimi anni si è trasformato in una grande partita a scacchi dove le mosse di un attore influenzano direttamente o indirettamente le risposte di un altro, tra basi militari stanziate in loco, rifornimenti di armi e mezzi alle formazioni ribelli locali o appoggio diretto ed incondizionato alle truppe regolari (come nel caso della Russia). L’analisi degli interessi geopolitici dei Paesi in gioco potrebbe, però, far passare in secondo piano un aspetto non meno importante, ossi quello della gravissima emergenza umanitaria: solo nel 2017 il conflitto siriano già contava circa 400mila vittime, le Nazioni Unite hanno più volte dichiarato quanto il Paese sia diventato una grande “camera di tortura”, tra attacchi chimici di imprecisata provenienza, bombardamenti, gruppi terroristici spesso mascherati da “benefattori” e barbarie messe in atto dagli stessi integralisti islamici. 

Scommessa vinta

In un contesto così complesso, l’uscita di scena (almeno dichiarata) di Washington non fa che alterare notevolmente gli equilibri del campo, sempre più monopolizzato dall’asse Russia-Turchia-Iran, non a caso i principali interlocutori dei tanto vituperati colloqui di Astana, spesso snobbati da stampa ed analisti legati alla sfera politica occidentale. Proprio i vari appuntamenti in terra kazaka, partiti in sordina, si sono poi rivelati molto funzionali ad una collaborazione più proficua e alla convergenza dei diversi interessi di Mosca, Teheran ed Ankara. Senza dubbio, nonostante Putin abbia già espresso seri dubbi riguardo ad una reale ed effettiva smobilitazione americana citando il caso dell’Iraq e dell’Afghanistan, la Russia si conferma, al momento, indiscussa vincitrice della partita siriana: le postazioni militari sul Mediterraneo sono state brillantemente difese, Assad è ancora alla guida del Paese, le forze del sedicente Stato Islamico e dei “ribelli” sono state notevolmente contenute, gli attacchi sporadici e disordinati di Stati Uniti ed Israele si sono rivelati poco strutturati e, spesso e volentieri, inconcludenti, le armi ed i sistemi di difesa aerea russi, seppur nelle versioni più obsolete, si sono rivelati molto funzionali. La Siria, in altre parole, si è dimostrata una scommessa vincente della Russia, ormai presentatasi al mondo come una potenza in grado di regolare partite al di fuori del suo Grossraum, come un broker affidabile, nonché un rivenditore di armamenti altamente tecnologici e funzionali anche nelle sue versioni meno aggiornate.

Campo libero

Le ragioni addotte da Trump, che ha parlato di una sconfitta dell’Isis per mano americana (“my only reason for being there during the Trump Presidency” ha così tweettato il presidente Usa), non hanno convinto nessuno: il ruolo marginale giocato dagli Usa nel conflitto siriano ha sorpreso un po' tutto il mondo della politica internazionale, mentre il Califfato, si sa, è stato contenuto grazie al continuo appoggio aereo russo all’esercito regolare siriano. Proprio la smobilitazione statunitense, da un punto di vista simbolico non meno importante, si rivela la ciliegina sulla torta per il Cremlino: nonostante gli oneri della gestione post-bellica del Paese saranno senza ombra di dubbio elevatissimi, Washington, uscendo di scena, accredita Mosca in qualità di attore meritevole di un ruolo così importante, cosa ancora mai avvenuta formalmente in nessun scenario post-1991. La crisi siriana, stando a quanto visto recentemente, verrà risolta in seno alle decisioni prese dagli attori regionali come l’Iran, la Turchia ed Israele, con una Russia pronta ad impartire diktat dalla distanza e a “pilotare” le decisioni di Assad, sempre più legato a doppio filo al volere di Mosca. Il Cremlino, accreditato dagli Stati Uniti nella gestione della crisi più grave del Pianeta, sfrutta l’assist di Washington dando all’establishment di stanza a Mosca l’ennesimo motivo per distrarre il popolo dalle recenti difficoltà economiche legate alle sanzioni. In poche parole, una vittoria su tutti i fronti per Vladimir Putin.

Gli sconfitti

Una futura uscita di scena completa da parte Usa gioverebbe non solo alla Russia, ma anche alla Turchia, forza sempre più mossa da una voglia di sfruttare a pieno il proprio potenziale strategico. Erdoğan, da questo punto di vista, si è sempre dimostrato un leader molto spregiudicato ma, spesso, lungimirante: il poco pronosticabile asse Mosca-Ankara (rilanciato ultimamente in settori strategici decisivi come quello degli armamenti e dell’approvvigionamento energetico) risulterà decisivo per decidere definitivamente la partita siriana e ristabilire una duratura pace. Chi perde? Senza dubbio i curdi, alleati degli Stati Uniti ed ancora una volta traditi dalle intenzioni dei loro alleati: il potere contrattuale del popolo curdo, in uno scenario dominato da una Siria sovrana, dalla Turchia e dall’Iran, ne esce fortemente ridimensionato. Anche Israele, dal canto suo, nonostante le sue notevoli forze diplomatiche e militari, dovrebbe limitarsi al contenimento delle ambizioni iraniane su Damasco. In pochi ci avrebbero giurato: dopo otto anni di scontri sanguinosissimi, a meno di nuove clamorose svolte, per la Siria sembra delinearsi un futuro in continuità con il suo passato.