Perché la morte di Soleimani stravolge l'assetto mediorientale

Rischia davvero di stravolgere tutto la morte di Qasem Soleimani, leader delle milizie di al-Quds e uomo della riorganizzazione sciita, filo diretto con Hezbollah e artefice del sostegno iraniano al regime di Assad fin dall'inizio della rivoluzione. Il raid americano a Baghdad elimina in sostanza l'uomo considerato chiave negli assetti mediorientali, o comunque il più importante nella rete di alleanze tessute da Teheran e, al tempo stesso, un pericoloso avversario da parte degli Stati Uniti, che ne hanno giustificato l'uccisione sostenendo che Soleimani “stava mettendo a punto attacchi contro diplomatici americani e personale in servizio in Iraq e nell'area”. Ora, fra chi giura vendetta e chi pianifica reazioni sul piano politico e militare, il Medio Oriente rischia di trovarsi al centro di una pericolosa escalation, mentre la Comunità internazionale fa appello alla moderazione e al dialogo per scongiurare una deriva bellica che costerebbe un prezzo altissimo. Ma la morte di Soleimani rompe davvero i delicati equilibri mediorientali? In Terris ne ha parlato con Francesca Manenti, Senior Analyst Asia e Pacifico del Centro Studi internazionali (Ce.S.I).

 

Dottoressa Manenti, il raid americano a Baghdad ha colpito una pedina di notevole importanza strategica per lo scenario mediorientale, oltre che di notevole importanza politica per l'Iran. Si può dire che la morte di Qasem Soleimani va a intaccare il delicato equilibrio nella regione, specie in relazione alla sua forte influenza sulle milizie sciite?
“Sicuramente è una situazione molto fluida perché in questi anni Soleimani è stata la mente, l’architetto di quelle che sono state le fila delle milizie sciite tirate dal Libano alla Siria, all’Iraq. Fili che sono quantomai complessi e che vedono riunire insieme tutta la componente sciita ma anche uno sforzo addestrativo-finanziario-capacitivo messo in atto dalla forza Quds di cui Soleimani è stato comandante fino alla sua morte. Il generale lascia sul terreno un’eredità fatta di milizie sciite che hanno sempre guardato a lui come comandante un leader carismatico ma a tutta la forza Quds come un punto di riferimento, organizzativo ma anche politico e direttivo. Se da una parte ciò vuol dire che potrebbe esserci un risentimento sul terreno, d’altra parte si apre il grandissimo capitolo di quella che potrebbe essere il post-Soleimani. La necessità in primis, per i Pasdaran, di trovare un comandante in grado di continuare quello che è stato lo sforzo iraniano in questi ultimi anni, non concentrato solo su uno scenario specifico come poteva essere quello iracheno, ma che si è andato a declinare all’interno di tutto l’arco mediorientale, fino allo sforzo delle milizie sciite nel contrasto all’avanzata di Daesh nella regione ma anche uno sforzo intenso per quello che si è poi espresso nel conflitto siriano”.

Sembra di trovarsi di fronte a qualcosa di radicalmente diverso rispetto alle tensioni verbali relative all'accordo sul nucleare o agli incidenti del Golfo Persico… Ritiene che, come si teme, la morte di Soleimani possa innescare una serie di reazioni a catena nello scacchiere regionale?
La morte di Soleimani e, in particolare, la sua eliminazione diretta da parte degli Stati Uniti è un po’ un been change, perché da quando l’amministrazione Trump si è insediata alla Casa Bianca i rapporti con Teheran si sono inevitabilmente complicati: la deriva dell’accordo sul nucleare, che è ormai praticamente abbandonato, ne è forse l’esempio più lampante. Ma è una deriva che si è poi consumata a colpi di botta e risposta con le varie crisi e i vari incidenti nel Golfo Persico o l’abbattimento del drone statunitense da parte dell’Iran, tutto comunque proporzionato all’interno di uno scontro che è sempre stato uno scontro dialettico molto forte ma mai tradotto in una provocazione che avrebbe potuto scompaginarne il livello. In questo caso potremmo essere di fronte a un elemento nuovo che alza inevitabilmente il tiro nella partita fra i due Paesi perché, nonostante il generale Soleimani fosse considerato dagli americani il fautore e uno dei principali finanziatori di milizie e gruppi considerati terroristici dagli Usa e quindi possibili target per gli obiettivi strategici statunitensi nella regione, è altrettanto vero che essendo parte delle guardie della rivoluzione, il generale era inquadrato nell’assetto istituzionale iraniano e quindi lo strike contro di lui è un diretto colpo a un militare del Paese. Scelta che non è probabilmente stata semplice per l’amministrazione Trump e che era stata temuta in precedenza dall’amministrazione Obama e da quella Bush: nessuno dei due aveva preso la decisione di autorizzare uno strike che avrebbe comportato la morte di Soleimani, proprio per i possibili effetti che questa avrebbe potuto provocare”.

In sostanza, un rischio di effetto domino…
“È quindi possibile un effetto a catena: se vogliamo potrebbe essere disorganizzato, nel senso che le diverse milizie sciite, che hanno visto venire meno un referente importante per l’organizzazione e la quotidianità delle operazioni in tutta la regione, potrebbero in qualche modo far sentire la propria voce contro gli Stati Uniti e protestare contro un atto dal valore altamente politico. D’altra parte, il tentativo di andare a rinfiammare i fronti di instabilità in Medio Oriente, potrebbe essere la risposta che Teheran potrebbe decidere di dare agli Stati Uniti”.

Ovvero?
“Iran e Stati Uniti ci hanno abituato in questi mesi a un botta e risposta e, in questo momento, la palla sembra essere in mano agli iraniani”. 

Si tratterebbe quindi di una risposta militare o Teheran potrebbe decidere di rispondere – come ha comunque promesso di fare – mantenendosi su ambiti diversi da quello bellico?
“Potrebbe essere una risposta militare asimmetrica, nel senso che attraverso la capacità delle Guardie della rivoluzione di andare a costruire quella rete di influenza che hanno costruito in questi anni, andare ad accendere diversi focolai all’interno di Paesi come Libano, Siria, Iraq o minoranze sciite nel Golfo come il Bahrein, che dimostrerebbero agli Stati Uniti come la posta in gioco vada al di là di quella che è la dialettica bilaterale Washington-Teheran. Voler provocare una reazione iraniana potrebbe comportare un costo più alto rispetto a quello preventivato. Per far questo, l’Iran potrebbe giocarsi la carta regionale. Difficile pensare che possa cercare lo scontro frontale con gli Usa. Nel qual caso si troverebbe in difficoltà sia capacitiva che finanziaria: basta pensare a quali costi richiederebbe una guerra e quali siano al momento le condizioni economiche dell’Iran”.

Per quanto riguarda il tema nucleare? Può essere anche questo, già elemento di tensione, un'ulteriore fonte di instabilità?
“Inevitabilmente viene in mente in queste ore quando si parla di una possibile nuova recrudescenza. Teniamo presente che la bomba atomica, per quanto ci siano una serie di difficoltà tecniche nel poter portare il livello dell’uranio al di sopra delle soglie critiche del 20% e di assicurare un arsenale balistico tale da poterle veicolare, il programma atomico è sempre prima di tutto un’arma politica, che viene utilizzata come una sorta di assicurazione sulla vita per scongiurare che poi ci possano essere qualsiasi tipo di azioni preventive da parte dell’avversario. Pensiamo solo a quello che ha fatto ormai due anni fa Kim Jong-un e quello che poi è riuscito a ottenere”.