Gran Bretagna al voto, tutto quello che c'è da sapere

Difficile affidarsi ai sondaggi quando si tratta della Gran Bretagna di oggi. Un po' perché variabili praticamente di ora in ora, un po' per il sentimento politico che accompagna gli elettori del Regno Unito, forse mai così divisi su chi votare. E non tanto per la storica divisione fra laburisti e conservatori, quanto per i trascorsi recenti che non hanno aiutato i britannici ad affezionarsi fino in fondo a uno dei leader in corsa. In sostanza, per quanto le elezioni di domani (urne aperte dalle 7 alle 22) assumano un'importanza strategica in chiave Brexit, tornare nuovamente al voto (ad appena due anni dall'ultima volta) non sembra ispirare granché i sudditi di Sua Maestà, posti davanti a un tira e molla durato troppi mesi, fra i tentativi sempre più stoici di portare a casa un accordo da parte di Theresa May, e i mesi movimentati ma tutto sommato fruttuosi di Boris Johnson che, alla fine, alle elezioni si presenta con un'intesa in tasca da poter applicare qualora ottenesse la maggioranza assoluta in Parlamento. Un'eventualità tutt'altro che certa.

Sondaggi variabili

Un dato singolare, al di là delle turbolenze che ne hanno caratterizzato gli anni a Downing Street, è che il Partito conservatore resta il più alto nell'indice di gradimento dei britannici. Che sia merito delle politiche adottate o più colpa dei laburisti, che a formarsi un'identità precisa in tema Brexit non sembrano esserci riusciti fino in fondo, lo stabilirà probabilmente il dopo elezioni. Al momento, i sondaggi raccontano dei Tories in vantaggio anche se lontani dall'obiettivo maggioranza assoluta che, con i 339 seggi (contro i 359 necessari) rilevati da YouGov-Mrp, resta una pesante incognita: il rischio è che si palesi nuovamente quello che accadde a May nel 2017, quando le elezioni anticipate che, nelle intenzioni, dovevano legittimare la sua strategia con Bruxelles per l'uscita dal Regno Unito, riservarono invece una vittoria stringata, che necessitò dell'aiuto dei nordirlandesi del Dup per riuscire a formare un governo. Una maggioranza mozzata che avrebbe fatto senitre il suo peso in misura sempre maggiore, sia su un piano politico che strategico, visto che il piano May era stato considerato inadeguato dai laburisti e fin troppo moderato dai Tory brexiteers oltranzisti.

Campagne brevi

Ai nastri di partenza, dunque, due forze politiche dalla leadership definita ma dai programmi definiti solo in parte, un po' per il poco tempo a disposizione per fare campagna elettorale, e poi per le fasi politicamente concitate che hanno portato alle elezioni a dicembre, mese tradizionalmente inviso alla politica britannica per andare al voto, tanto che l'ultima volta fu addirittura nel 1923 (primo mandato a Downing Street di Ramsay MacDonald e primo governo laburista della storia britannica). Un mese che, tutto sommato, considerato il precedente illustre potrebbe non dispiacere troppo ai Labour, arrivati alle urne però con qualche incertezza di troppo proprio sul tema cardine, quello della Brexit, in grado di dividere tanto i Tory (con risonanza maggiore vista la permanenza al governo) che i rivali. Johnson, da parte sua, porta agli elettori un accordo di uscita di fatto già pronto, che necessita solo del giusto numero di seggi ai Comuni per ottenere il visto e chiudere ufficialmente la storia. Corbyn la sua breve campagna elettorale l'ha impostata su binari radicalmente opposti a quelli del premier, demandando l'affare Brexit a un nuovo possibile referendum e annunciando invece un forte incremento delle nazionalizzazioni, con la prospettiva di ampliare il welfare attraverso un aumento di spesa e di investimenti.

Mine vaganti

Servirebbe comunque una rimonta da record ai laburisti per insidiare l'ufficio di Downing Street. Interessante, in caso di vittoria dei Tory senza maggioranza, capire quale sarebbe la strategia di Johnson, che a quel punto riuscirebbe difficilmente a mantenere le promesse su Brexit (uscita il 31 dicembre e accordo sul mercato unico entro il 31 gennaio 2020) e, ancor meno, a convincere qualcuno degli altri partiti a dargli una mano. Del resto, nella fauna dei partiti minori resta alta una forte componente identitaria: come quella dei liberaldemocratici di Jo Swinson, dati in forte calo negli ultimi giorni ma determinati a portare avanti l'idea di rivedere in toto addirittura il risultato del referendum del 2016; poi lo Scottish Party di Nicola Sturgeon, per due volte di fila terzo partito e spettatore interessato visto che dal caos Brexit potrebbe uscirne fuori anche un nuovo referendum per l'indipendenza, Ukip, Dup e Sinn Féin, che comunque in Parlamento non siede. Senza contare le innumerevoli variabili che potrebbero condizionare il voto, a cominciare dal mutamento delle posizioni nei principali partiti di quegli esponenti che, per una ragione o per l'altra, hanno alzato il livello di scetticismo verso la leadership. In questo senso, ognuno potrebbe potenzialmente favorire l'altro. Ma di tutte le variabili possibili, questa è solo quella estrema.