Come Mosca sta conquistando l'Europa

La questione dell’approvvigionamento energetico del continente europeo ed, in maniera particolare, dell’Italia risulta essere uno dei problemi più complessi e più dibattuti in occasione del sopraggiungere di diverse crisi geopolitiche che gravitano intorno al bacino del Mediterraneo.

Rivalità

Così come dai tempi della Guerra Fredda, anche questo “conflitto” a bassa intensità di natura commerciale sembra evolversi secondo lo svolgimento di una “partita a scacchi” tra due “giocatori” fin troppo noti alla storia contemporanea: Russia e Stati Uniti, Paesi notoriamente ricchi di materie prime, da almeno una quindicina d’anni si contendono in maniera più o meno aperta le forniture energetiche necessarie all’Europa, all’Asia e all’America Latina.

Strategie

A differenza della Russia, notoriamente un Paese esportatore, gli Stati Uniti si sono visti costretti ad invertire la rotta e a modificare la propria politica tendenzialmente protezionista per poter fronteggiare le sempre più invasive ed aggressive manovre russe. Molto spesso, però, i non addetti ai lavori ascoltano i vari circuiti mediatici discutere di gasdotti, contratti, forniture, shale gas e dipendenze energetiche, ma ancora più spesso è la confusione a regnare sovrana. Ciò che è importante sapere, innanzitutto, è che, nel mondo dell’approvvigionamento energetico, le ragioni di natura geopolitica, molto spesso, tendono a cedere il passo ad altri criteri come la posizione geografica dei fornitori, la stabilità politica e le disponibilità degli acquirenti, senza contare l’importanza del prezzo, ancora il vero ed incontrastato regolatore del mercato degli idrocarburi.

Lo scontro

La “Guerra del Tubo” tra Washington e Mosca ha visto una rapidissima escalation da quando la Russia, tramite il notevole operato dei colossi a partecipazione statale come Gazprom e Lukoil, ha esponenzialmente aumentato e ridistribuito i suoi introiti grazie alla vendita massiva di materie prime. I primi tentativi statunitensi di contrastare la Russia sul terreno della distribuzione energetica euro-asiatica risalgono alla metà degli anni 2000, quando la compagnia angloamericana British Petroleum finanziò la costruzione di tre grandi oleodotti che collegavano l’Azerbaigian alle coste turche bypassando completamente Russia ed Iran. Il soggetto che più operò per la costruzione fu la camera di commercio Usa-Azerbaigian che vantava, nel suo organigramma, figure di spicco del Deep State americano come l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Bill Clinton, Zbigniew Brzezinski, nonché l’ex Segretario di Stato, Henry Kissinger. L’esclusiva natura politica di questa operazione si è palesata interamente considerando gli altissimi costi paragonati ai bassi ricavi che non hanno fatto altro che confermare la Russia in qualità di principale partner energetico della regione. Nel 2002, poi, il progetto europeo del gasdotto “Nabucco” (che avrebbe dovuto collegare il Mar Caspio all’Europa) ha provocato la ferma reazione di Mosca: la costruzione in tempi rapidi del gasdotto North Stream, che collega la Russia direttamente alle coste tedesche tagliando il Mar Baltico, fonte assicurata di vendita illimitata nel tempo nei confronti del Paese-guida dell’Europa, la cui costruzione è stata portata a termine nel 2011 ma avallata dall’ex Cancelliere Gerard Shröder, un volto noto in Russia per via dello stretto rapporto con Putin, nonché per i servigi resi successivamente nei Cda di Gazprom e, dal 2017, di RosNeft. North Stream ha spaventato l’UE e gli Stati Uniti per via di un dettaglio non di poco conto: grazie a questa pipeline sottomarina, il gas russo non deve bypassare nessun Paese volubile nei confronti delle politiche del Cremlino.

La questione ucraina

Qualsiasi riferimento all’Ucraina non è per nulla casuale: Kiev, infatti, sta causando numerosi problemi per quanto riguarda il diritto di passaggio del gasdotto Urengoj-Užgorod, transitante sul suo territorio, in direzione dell’hub austriaco di Baumgarten. L’obiettivo russo è aumentare la cubatura annua venduta ai Paesi europei senza dover transitare per i Paesi confinanti. In questo senso, il Baltico ed il Mar Nero offrono le uniche risorse possibili: il progetto South Stream (che, analogamente al suo omologo settentrionale, avrebbe dovuto collegare la Russia all’Europa meridionale passando per il Bosforo) è saltato per via delle pressioni statunitensi sui Paesi interessati (Bulgaria in primis).

Concorrenza

Nel caso della Russia, dunque, si viene a creare un rapporto di stretta interdipendenza tra il fornitore e l’importatore: Mosca ha necessità di vendere e di ricavare costantemente delle somme importanti per rimpinguare il proprio Pil, mentre i Paesi europei hanno necessità di acquisire gas da un fornitore stabile. L’Unione Europea, però, in mancanza di una politica energetica comune, si è sempre preoccupata di tentare di diversificare le fonti di approvvigionamento proprio per paura di dipendere da un noto “avversario” nella politica internazionale. Oltre al noto progetto Tap (Trans Adriatic Pipeline), anche gli Stati Uniti si stanno muovendo, attraverso recenti innovazioni tecnologiche, per rompere il dominio russo in Europa: le esportazioni di Lgn (Liquefy National Gas) stanno pian piano aumentando. L’Lgn è destinato principalmente ai mercati dell’America Latina (dove gli Usa dominano), a quello europeo ma, soprattutto, a quello asiatico, vero obiettivo di Washington. La Gazprom, infatti, ha già annunciato per il 2019 il completamento del gasdotto Power of Siberia che condurrà 38 miliardi di metri cubi di gas russo l’anno verso la Cina. Verosimilmente, l’Asia rappresenterà il vero terreno di sconto, dal momento che, almeno in Europa, la partita sembra decisa: per rendere l’idea, basti pensare che dal 2016 ad oggi, il gas liquefatto americano è stato consegnato per 2,8 miliardi di metri cubi, mentre il gas russo trasportato tramite oleodotto ha raggiunto quota 162 miliardi solo nel 2017. Vicinanza geografica, impatto ambientale ridotto, sicurezza della consegna diretta tramite gasdotto e, dunque, prezzi più bassi del 30-40%: per questi motivi, l’Europa nel futuro prossimo non avrà, presumibilmente, altra alternativa al gas russo. Lo sanno bene in Germania dove, in barba ai recenti moniti di Trump e ai richiami di Bruxelles, hanno dato l’assenso per costruire il gasdotto North Stream 2, che bisserà la cubatura già fornita portandola dai 55 ai 110 miliardi di metri cubi annui. Sul fronte meridionale, invece, il tramontato South Stream è stato riconvertito nei progetti Turkish Stream e Blue Stream, al momento completi al 50%: a beneficiarne sarà la Turchia, potenziale gigante economico e demografico, che diverrà hub logistico per i Balcani ed il resto dell’Europa mediterranea. 

Dipendenti

La situazione dell’Italia non fa eccezione: la dipendenza dall’estero è pressoché totale. Anche in questo caso, nonostante in molti si ostinino a cercare a tutti i costi alternative anche poco credibili, la Russia si dimostra il nostro primo partner, nonché quello storicamente più affidabile. Soltanto nel 2017, infatti, l’Italia è diventata ufficialmente il terzo Paese importatore di gas russo con ben 28 miliardi di metri cubi erogati, con l’Algeria ferma a quota 18 come secondo esportatore, a fronte di una domanda ammontante a 65 miliardi di metri cubi annui. Cifre del genere giustificherebbero, da parte di Roma, due provvedimenti non necessariamente in contrasto tra loro: la necessaria diversificazione dei fornitori (per non dipendere interamente da Mosca) oppure, in senso contrario, una stabilizzazione migliore del flusso erogato dai russi (con notevole abbattimento dei costi), al momento ancora transitante per l’Ucraina, tramite un gasdotto costruito ad hoc. Sfumato il South Stream, l’Italia dovrà essere capace di attingere senza esitare al Turkish Stream e ai suoi hub balcanici.