COSTRUIRE LA PACE TRA LE MACERIE DELLA SIRIA

Sono arrivati da pochi giorni anche in Francia i primi di 500 siriani accolti nelle città di Nîmes e Le Mans, col progetto dei corridoi umanitari, grazie a un protocollo di intesa firmato tra il ministero dell’Interno, quello degli Affari esteri, la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione protestante di Francia e la Conferenza episcopale francese. In Italia invece è partito un anno e mezzo fa e ha permesso fino ad oggi la fuga di 850 persone provenienti dai campi profughi libanesi.

Ma da dove è partita la sfida di trasferire legalmente, proteggere e aiutare ad integrare le famiglie più vulnerabili al confine tra Libano e Siria? Ci sono giovani che, oltre a studiare e a lavorare, danno la vita per chi scappa dalla guerra, andando oltre gli accordi politici e le regole del singolo paese con il desiderio di costruire la pace a partire dal cambiamento di se stessi per garantire i diritti basilari di ogni persona. Il diritto alla vita, all’istruzione, al lavoro, alla salute, al rispetto della propria fede. Lo diceva Ghandi. “Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”.

Così succede per i volontari della “Operazione Colomba” corpo civile di pace della Comunità fondata da don Oreste Benzi che proprio in questi giorni hanno celebrato i 25 anni di attività internazionale su diversi fronti dalla Colombia alla Palestina e Israele, dall’Albania al Libano e Siria. Dal 2014 sono impegnati su quest’ultimo confine, nei campi sorti a seguito della distruzione delle città siriane di Homs, Aleppo, Damasco dove hanno recentemente radunato altri volontari italiani, francesi, giapponesi e olandesi per formarsi sui temi della nonviolenza e approfondendo l’impegno quotidiano a favore dei siriani degli operatori del Centro per i Diritti Umani di Beirut. Un modo anche questo per essere sempre più attenti ad una visione internazionale, interculturale e interreligiosa nell’approccio con le vittime di questo conflitto. Sul confine libanese i volontari per la pace insieme alle famiglie siriane hanno sperimentato in questi quattro anni cosa significa ascoltare, conoscere, incontrare e integrarsi. Quella stessa esperienza che stanno vivendo centinaia di siriani che hanno accettato di lasciare la propria terra, non schierarsi nel conflitto e vivere la pace nel nostro Paese accolti grazie al progetto autorizzato dalla Farnesina. Si sono fidati dei volontari dell’Operazione Colomba, della Comunità Papa Giovanni XXIII, di tanti come Mattia Paliotto, classe ’91, laureando in Storia Antica, originario della Bassa reggiana, ora è diventato per loro un fratello adottivo:

Cosa ti ha spinto a vivere in un campo tra le tende in Libano, in mezzo ad un popolo sconosciuto in una terra che lo ha rifiutato e costretto al confine?
“Sono passati due anni ma ricordo ancora una grande fatica la mattina per iniziare la giornata e una grande soddisfazione la sera prima di andare a letto, perché sapevo che, umanamente parlando, avevo dato il massimo e sapevo di essere nel posto giusto a fare la cosa giusta, che in termini concreti era ascoltare e mettersi a disposizione. Credo che quella sensazione prima di dormire mi desse la forza di cominciare la giornata. Queste famiglie siriane avevano lasciato tutto all’improvviso e ogni giorno speravano di poter tornare nella loro patria. Semplicemente siamo chiamati a stare accanto a questi sopravvissuti senza schierarci, cercando di dare segnali di normalità quando erano nei campi. Per ogni piccola cosa bisognava lottare. Gli ospedali rifiutano chi è malato perché non è libanese. Sono considerati clandestini ma non possono tornare in Siria. Non hanno i documenti. Non è stato facile nemmeno proporre di partire per l’Europa perché tutti sognano di varcare di nuovo il confine”.

Come si fa a ‘scegliere’ tra le tante persone che scappano da un conflitto come quello in Siria chi portare in Europa?
“Abbiamo fatto sempre la proposta alle persone più fragili. Ma tanti hanno anche esitato, per paura di lasciare la loro terra. Poi quando l’esercito libanese ha cominciato a sgomberare i campi si è scatenato il panico, quindi diverse famiglie con cui vivevamo hanno preso la decisione di partire “per disperazione” e hanno accolto la possibilità di farlo col corridoio umanitario. Tra i tanti volti ho in mente quelli che non potevano provvedere a se stessi autonomamente (bambini in primis e adulti che hanno subito menomazioni gravi e non possono più lavorare). Non è facile però valutare perché in realtà questo disastroso conflitto dà un tale senso di impotenza che appiattisce ogni caso a una condizione di fragilità”.

Come hai imparato l’arabo? ti capivano?
L’ho imparato stando mattina, pomeriggio, sera con loro. In realtà non so se parlo arabo ma un pò mi capiscono loro, un po’ li capisco io e spesso basta. Quello che capivano nei campi ed oggi che sono miei “vicini” di casa in Italia sono i gesti quotidiani, l’aiuto costante nelle piccole cose di ogni giorno. Accompagnarli in ospedale, come anche prendersi a cuore il benessere dei bambini prima con la scuola e adesso coi centri estivi, sono il primo linguaggio delle nostre relazioni in questo progetto dei corridoi umanitari.

Come ci si può relazionare ai bimbi dopo che hanno assistito a scene di violenza o hanno ancora il ronzìo delle bombe nella testa?
“Nei campi in realtà ho sempre visto bambini giocare spensierati. Può essere solo una mia impressione e forse non ci ho fatto abbastanza caso, ma erano gli adulti ad essere spaventati, non solo dalla guerra ma anche per quello che vivevano in Libano e per un futuro incerto. Per i bambini abbiamo trasformato una tenda in una capanna per l’istruzione. Lì hanno iniziato corsi di lingua araba, lingua inglese con alcuni insegnanti del campo che si sono messi a disposizione per non perdere la dimestichezza con la scuola e la capacità di imparare cose nuove”.

Oggi, dopo un anno di affiancamento delle famiglie nella tua terra reggiana, cosa vedi più importante e urgente per loro? cosa dovremmo “modificare” perché davvero funzionino per tanti altri profughi i canali umanitari? C’è ancora paura dello straniero nelle nostre comunità?
“Il problema concreto principale è il lavoro. Il nostro sistema economico così complesso, tra tasse, permessi e licenze, dichiarazione dei redditi, spesso impedisce l’avvio di piccole attività commerciali o agricole. È difficile per noi figuriamoci per chi viene da un altro sistema sociale ed economico. Anche il progetto dei corridoi umanitari che è comunque stata una risposta per tante persone con cui abbiamo condiviso ogni giorno la vita nei campi libanesi, è incompleto se non prevede microprogetti di lavoratori e percorsi di inserimento lavorativo oltre ai tirocini. Dopo un anno come fanno ad essere autonome queste famiglie? Il problema non è la paura dello straniero. Nei nostri paesi, nelle parrocchie che stanno ospitando i profughi, vedo che la gente ha imparato a conoscere chi ha una cultura, una religione e delle tradizioni diverse dalle nostre. Secondo me noi italiani – ma anche gli stranieri – dovremmo imparare ad accettare l’incomprensione come un dato di fatto e darci il tempo di conoscere e di metterci in ascolto reciproco. Si tratta di riuscire a voler bene e ad accogliere pur non comprendendo spesso l’altro. Ecco cosa significa per me stare dentro i conflitti in maniera non violenta anche nella vita quotidiana e continuare a ‘lavorare’ per la pace anche qui in Italia”.