Un’esperienza evangelica per “raccogliere i pezzi avanzati”

La chiesa è aperta ma vuota. Un senso di desolazione invade il mio quartiere e gli animi. Sembra di vivere un incubo. Ci siamo svegliati un giorno e ci siamo accorti di non essere più gli stessi. Lasciarsi andare allo scoraggiamento è facile, ma è una tentazione alla quale non bisogna soccombere.

Resistere, capire, obbedire, condividere, pregare: sono questi i verbi da coniugare in tutti i tempi e in tutti i modi. La nostra fede deve sostenerci e trasparire proprio in questi tempi difficili e dolorosi. Dio è più grande del nostro cuore. Le domande si rincorrono, si accavallano, si acciuffano. Pretendono risposte; risposte che non arrivano o, almeno, non arrivano nella loro completezza. Perché la sciagura che ci è cascata addosso va affrontata da tanti punti di vista: medico, scientifico, politico, ma anche filosofico, teologico, esistenziale. Dopo questa esperienza, niente sarà più come prima. Perciò bisogna fare tesoro di tutto.

Dopo aver moltiplicato i pani, Gesù rivolge ai discepoli un comando: “Raccogliete i pezzi avanzati“. Per quale motivo? “Perché nulla vada perduto”. Siamo chiamati a fare la stessa cosa. Siamo invitati a raccattare ogni sensazione, emozione, paura, speranza, meschinità, altruismo, eroismo, perché niente vada perduto di queste ore dolorose oltre ogni dire. Di questo tempo che del tempo non ha più il sapore né il colore. Quanti miti stanno crollando, quanti idoli si stanno sbriciolando. Eppure occorre guardare avanti, fare uno sforzo e immaginare i nostri nipotini che domani a scuola, studieranno questa pagina di tristissima cronaca, consegnata ormai alla storia.

Chi lo avrebbe detto? Mercoledì delle ceneri. La prima parola che, in chiesa, ci siamo sentiti dire dal celebrante, mentre con un pizzico di polvere sporcava il nostro capo, è stata: “Ricordati”. Ricordati, non ti distrarre, non perdere tempo inutilmente. Ricordati che sei polvere. Polvere, dunque? Cioè niente? Terribile. Il cuore si ribella. Non è possibile, non può essere, non è così. Non può finire tutto. Si facciano avanti gli esperti, ci indicano le scoperte fatte, il sentiero sconosciuto, il segreto svelato. Oggi la lunga fila di autocarri militari che partono da Bergamo alla ricerca di forni crematori per smaltire le salme delle tante vittime, sono di una tristezza infinita. Soli. Se ne sono andati da soli questi carissimi sorelle e fratelli. Un morire disumano. Ecco che la paura si fa avanti, ci accarezza, ci corteggia, bussa, insiste, vuole che le spalanchiamo gli usci. Vuole farla da padrona, comandare, dettare leggi. Tenerci prigionieri, ridurci in schiavitù. Ci mostra l’evidenza; beffarda, ci sussurra che non c’è speranza.

E invece proprio adesso occorre avere i nervi saldi, il sangue freddo, i piedi a terra. La preghiera non è un toccasana, non è una comoda panacea, eppure è indispensabile. Pregare è bussare con insistenza al Cuore immenso del Padre con la certezza che ci ascolta anche se i suoi tempi non sono i nostri. Anche se non ci sono chiare le vie per le quali ci conduce. Una cosa è certa: Dio parla. Non ha mai smesso di parlare. Lo ha fatto ieri, continua a farlo oggi. La Primavera è alle porte. I fiori dei peschi, dei meli, dei peri sono già gonfi di incanto e vanità. La natura va per la sua strada. Bella ma cieca. Non sempre abbiamo saputo contemplarla. Oggi, chiusi nelle nostre case, rimpiangiamo le ore sprecate, gli abbracci non dati, le parole non dette.

Tutto è grazia. Ci vuole coraggio ad affermarlo in simili contesti. È vero. Eppure non cambia una virgola. Tutto è grazia, se sappiamo fare tesoro di tanta sofferenza; se sapremo chinarci per raccogliere i pezzi avanzati. Oggi ci rendiamo conto di quanta stoltezza siamo capaci noi uomini. Abbiamo osannato e strapagato gente che alla società ha dato tanto poco quanto niente e ci accorgiamo – ma c’era bisogno di questa sciagura? – solo adesso di quanto preziosi siano medici, ricercatori, infermieri, verso i quali siamo stati di una tirchieria unica. Lo stipendio di un Vigile del fuoco, un poliziotto, un carabiniere, amici sempre vicini in ogni disgrazia, che mettono a repentaglio le loro vite per salvarne altre, impallidisce fino a scomparire di fronte a quello di un giovanotto che tira calci a un pallone.

Chissà se dopo questo flagello impareremo a dividere meglio le risorse, a fare meno imbrogli, a smetterla di arraffare quello che appartiene a tutti e dichiararlo nostra proprietà privata. Chissà. Raccogliere i pezzi avanzati, forse vuol dire anche questo? Sono un prete di periferia. Un uomo del Sud. Profondamente addolorato per ciò che sta accadendo al Nord, ma terribilmente preoccupato per la propria terra. Non oso immaginare, infatti, che cosa potrebbe mai accadere se l’epidemia che ha colpito il Nord dovesse replicarsi qui da noi con la stessa virulenza, gli stessi impressionanti numeri di contagiati, gli stessi ammalati bisognosi di cure ospedaliere. Non è un segreto per nessuno che la nostra sanità non è minimamente paragonabile a quella della Lombardia e del Veneto. E mi chiedo: perché? Perché dopo più di un secolo e mezzo da quando siamo diventati una cosa sola, questa nostra bella Italia debba continuare a correre a doppia velocità?

Sono un prete, credo in solo Dio, Padre onnipotente. So che la Provvidenza scrive dritto sui righi storti. Prego il Signore che abbia pietà di noi italiani e dell’intera umanità. Ma spero tanto che questa amarissima, pesantissima, dolorosissima lezione non vada perduta. Sono solo in chiesa; in questa mia chiesa aperta ma vuota. Chiedo perdono, ho sbagliato, non sono solo. Nel Tabernacolo c’è lui, il Figlio di Dio fattosi Pane da mangiare. Lo adoro. Per tutti voi. Per i nostri ammalati, i nostri bambini, i nostri impauriti anziani. Lo imploro. Di avere pietà e di non permettere che nemmeno una briciola di tanto cupo dolore vada perduto quanto il sole tornerà a sorriderci dal cielo.