Totalitarismo e cristianesimo sono incompatibili. L’esempio di Edith e Joseph

Il Papa più volte l’ha indicata come esempio di vita contro “ogni forma di intolleranza e perversione ideologica”. Ieri la Chiesa ha ricordato il martirio di Edith Stein, la prima ebrea elevata agli onori degli altari (oltre le donne del Vangelo) da papa Giovanni Paolo II. Dichiarandola compatrona d’Europa con il Motu Proprio del primo ottobre 1999, Karol Wojtyla intendeva “porre sull’orizzonte del Vecchio continente un vessillo di rispetto, di tolleranza, di accoglienza”. Francesco, nell’udienza generale dell’8 agosto 2018, invocò Edith (divenuta santa Teresa Benedetta della Croce) per proteggere il Vecchio Continente. “Martire, donna di coerenza, donna che cerca Dio con onestà, con amore e donna martire del suo popolo ebraico e cristiano. Che lei, Patrona d’Europa, preghi e custodisca l’Europa dal cielo“, disse Jorge Mario Bergoglio. Edith è un’ebrea, nata a Breslavia nel 1891. Da giovane si professa atea. E’ allieva e poi assistente di Husserl all’università di Gottinga. Come ricorda il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio la sua lezione è sempre attuale. Autrice di opere di ampio respiro, traduttrice di san Tommaso e docente nell’Istituto di Pedagogia di Munster. Colpita dall’Autobiografia di Teresa d’Avila, chiede il battesimo nel 1922, quindi si dedica all’insegnamento nel liceo delle domenicane di Spira. Il regime nazista la sospende dall’ insegnamento perché ebrea. Con l’acuirsi delle persecuzioni razziali, i superiori la trasferiscono nel convento di Echt in Olanda. Nell’agosto del 1942 la Gestapo preleva lei e la sorella Rosa, terziaria carmelitana, e le porta ad Auschwitz. Per capire quanto il totalitarismo sia incompatibile con il cristianesimo, è utile ricordare anche la dolosa esperienza personale e familiare di Joseph Ratzinger. Il padre era commissario di gendarmeria e proveniva da una modesta famiglia di agricoltori di Passavia, città della Bassa Baviera. Servì sia la Landespolizei sia la Ordnungspolizei prima di ritirarsi nel 1937 nella città di Traunstein. Era un antinazista che, in resistenza a Hitler, fece trasferire la sua famiglia diverse volte. La madre, Maria, era figlia di artigiani di Rimsting, sul lago Chiem in Baviera e prima di sposarsi aveva lavorato come cuoca in diversi alberghi.All’Incontro Mondiale delle Famiglie, celebrato a Milano il 2 giugno 2012, Benedetto XVI ricordò la sua infanzia. rispondendo a una bambina. “Abitavamo vicino a un bosco e camminare nei boschi era un’esperienza meravigliosa. Avventure, giochi, passeggiate. In una parola, eravamo un cuore e un’anima sola, con tante esperienze comuni, anche in tempi molto difficili. Perché quello era il tempo della guerra, prima della dittatura, che poi diventò quello della povertà”. Benedetto XVI si riferiva all’amore reciproco che si viveva in famiglia. Quell’amore forte che dava immensa gioia anche nelle vicende più semplici e grazie al quale si potevano superare e sopportare anche le prove più dure. “Questo era  molto importante. Anche le cose piccole danno gioia, perché così si esprime il cuore”. Parole che aprono uno squarcio intimo. Un delicato mondo interiore di affetti domestici messo purtroppo sotto pressione dall’incedere tumultuoso e implacabile della Storia.“Siamo cresciuti nella certezza che la bontà di Dio si rifletteva nei genitori e nei fratelli”. Tanto era stata bella la sua infanzia che, con un sorriso, Benedetto XVI ci tenne a dire che era come stare in Paradiso. “Così, in questo contesto di fiducia, di gioia e di amore eravamo proprio felici e credo che il Paradiso dovrebbe essere simile a come era nella mia gioventù. In questo senso spero di tornare “a casa”, quando andrò verso l’altra parte del mondo”. Il piccolo Joseph Ratzinger era cresciuto insieme al fratello Georg e alla sorella Maria, andando a scuola e imparando a conoscere la Bibbia. Ne aveva imparato a memoria dei passi, ripeteva ad alta voce le avvincenti storie delle sacre scritture come fossero fiabe e le raccontava in famiglia con l’entusiasmo travolgente di chi ha scoperto un mondo fantastico.Ricorderà, tanti anni dopo, il 5 aprile 2009, in occasione della 24° Giornata mondiale della gioventù. “La giovinezza è tempo di speranze perché guarda al futuro con varie aspettative. Quando si è giovani si nutrono ideali, sogni e progetti. La giovinezza è il tempo in cui maturano scelte decisive per il resto della vita”. La sua, di giovinezza, fu segnata dal dramma della seconda guerra mondiale, che visse in prima linea, dato che negli ultimi mesi del conflitto venne arruolato nei servizi ausiliari antiaerei. Come ha rievocato lui stesso nel corso della Giornata Mondiale della Gioventù del 2011, ha vissuto “rinchiuso’’ a causa del potere dominante durante la guerra e dittatura nazionalsocialista. Una reclusione in casa e tra gli affetti più cari per sfuggire al male che cingeva d’assedio il suo piccolo universo di ragazzino studioso e appassionato di libri. “Pensando ai miei anni di allora ricordo che non volevamo perderci nella normalità della vita borghese. Volevamo inseguire ciò che è grande, nuovo, e volevamo vivere la vita stessa nella sua vastità e bellezza”. Aspirazioni a metà strada tra sogni di adolescente innamorato della letteratura e vocazione nascente al sacerdozio. Ma purtroppo la barbarie del totalitarismo ha lasciato segni indelebili nell’animo. “In qualche modo la mia giovinezza è stata resa più amara dal rapimento e l’uccisione di un cuginetto down durante la campagna per l’eutanasia promossa dai nazisti e dal prepensionamento di mio padre che si era rifiutato di mandare noi due figli alle esercitazioni della Gioventù Hitleriana”.La chiamata a servire Cristo era imminente: “Ho avuto ben presto la consapevolezza che il Signore mi voleva sacerdote. Ma poi, dopo la guerra, mentre studiavo all’università ed ero in cammino verso questa meta, ho dovuto riconquistare questa certezza. Ho dovuto chiedermi: è veramente questa la mia strada? E’ veramente questa la volontà del Signore per me? Sarò capace di rimanere fedele a Lui e di essere totalmente disponibile per Lui, al suo servizio? Una tale decisione deve anche essere sofferta. Non può accadere diversamente.” Come raccontato da Peter Seewald nel suo libro-intervista con Benedetto XVI, “Ultime conversazioni”, Joseph Ratzinger ebbe un grande amore negli anni della giovinezza, che gli provocò profonde incertezze e tormenti interiori circa la sua scelta religiosa. Il giovane Ratzinger era un bel ragazzo, elegante, un esteta. Colto, scriveva poesie e leggeva Herman Hesse. Faceva colpo sulle donne e anche lui non era del tutto insensibile all’universo femminile.Discernimento, preghiera, lo studio profondo del Vangelo per cercare risposte ai suoi quesiti. “E poi, a un certo punto, è sorta la certezza: è bene così! Sì, il Signore mi vuole, pertanto mi darà anche la forza. Nell’ascoltarlo, nell’andare insieme con Lui divento veramente me stesso. Non conta la realizzazione dei miei desideri, ma la Sua volontà”. E fu così che si è radicata ed è divenuta risposta definitiva ai propri interrogativi la sua scelta di diventare sacerdote. Per cercare di penetrare nel mistero del futuro Benedetto XVI occorre partire da dove tutto è iniziato. E cioè dai villaggi in cui trascorse l’infanzia e l’adolescenza in Traunstein, piccola località rurale vicina alla frontiera con l’Austria, a 30 chilometri da Salisburgo. In questo contesto, che egli stesso ha definito “mozartiano”, ricevette la sua formazione cristiana, umana e culturale. Visse circondato dall’amore dei suoi genitori e dei suoi fratelli maggiori. Il primo, Georg, iniziò a suonare l’organo in chiesa già dall’età di undici anni e anni dopo entrò nel seminario minore di Traunstein, dove maturò la sua istruzione musicale.  Nel 1947 assieme al fratello entrò  nel seminario di Monaco di Baviera, da dove uscirono entrambi nel 1951, ordinati sacerdoti. La seconda, Maria, che non si sposò mai e fece la promessa ai genitori di prendersi cura dei suoi fratelli (morì poi nel 1991, realizzando quella promessa). Ai colleghi di carriera accademica e ai confratelli vescovi che nel corso dei decenni hanno condiviso il suo percorso di studi e di fede, Joseph Ratzinger non ha mai nascosto i sentimenti di profonda angoscia per le sofferenze di cui fu testimone negli anni giovanili, il periodo più difficile della sua vita. Ma furono appunto la fede e l’educazione ricevuta in famiglia a consentirgli di superare le dure esperienze di quei tempi nei quali il regime nazista diffondeva un clima di forte ostilità contro la Chiesa cattolica. E’ sotto questa cappa di oppressione e violenza che il giovane Joseph si trovò ad assistere impotente, poco prima della celebrazione della messa, all’aggressione nazista del suo parroco. Tempi straordinariamente complicati per una famiglia ordinariamente semplice e unita come quella del futuro Papa. Una situazione apparentemente senza via di uscita. Ma invece di spaventarlo, la strisciante persecuzione contro la Chiesa spronò il giovane Joseph a reagire. A non abbandonarsi per quieto vivere al conformismo di regime. A non piegarsi a complicità, compromessi, omertà. E a scoprire la bellezza e la verità della fede in Cristo. In questo svolse un ruolo fondamentale l’attitudine dei genitori che sempre offrirono un’indiscutibile e chiara testimonianza di bontà e speranza, radicati com’erano nella consapevole appartenenza alla Chiesa. Eppure nessuna ferita fu risparmiata durante la guerra al futuro Pontefice. Gli studi di teologia non lo misero al riparo dal reclutamento e dagli orrori del secondo conflitto mondiale. Anzi i fratelli Ratzinger, come milioni di coetanei, diventarono l’ultima leva utile nelle forze armate naziste ormai prossime al tracollo. Ma lo Spirito soffiava più forte di qualunque tempesta della Storia.