Solidarność, così 40 anni fa Karol Wojtyla cambiò il mondo

Francesco

Occorre riannodare i fili della memoria per tornare all’inizio di agosto del 1980. Sono passati esattamente quarant’anni dalle storiche giornate nelle quali San Giovanni Paolo II cambiò il corso del XX secolo. Karol Wojtyla scrisse all’episcopato polacco diverse lettere d’appoggio alle rivendicazioni operaie dei cantieri navali di Danzica e alla nascente Solidarność. Il Papa si schierò a difesa della confederazione nazionale di sindacati indipendenti guidata da Lech Wałesa, operaio dei cantieri Lenin. Quarant’anni fa il Pontefice scrisse anche al leader dell’Unione Sovietica, Leonìd Brèžnev per rivendicare la sovranità polacca, minacciata dalle truppe del Patto di Varsavia. Paragonò un’eventuale invasione sovietica della Polonia a quella nazista del 1939. Si richiamò agli accordi di Helsinki che vietavano di intervenire negli affari interni degli Stati firmatari.  “Sarebbe ridicolo ritenere che sia stato il Papa ad abbattere con le proprie mani il comunismo“. Scriveva così Giovanni Paolo II,
pochi mesi prima di morire, nel suo libro Memoria e identità. Ed
era la verità. La verità della storia. La verità di ciò che era accaduto
nell’Europa dell’Est sul finire del secondo millennio. I fatti del 1989 avevano colto di sorpresa tutti. Erano arrivati all’improvviso. Anzi, proprio per i loro sviluppi incruenti, in modo inatteso, inaspettato.
Incredulo l’Occidente. Presi in contropiede, sconvolti, i dirigenti
dell’Urss. Eppure, il 1989 aveva avuto una lunga gestazione. Una gestazione sotterranea, come un fiume carsico. Avviata dall’Atto finale di Helsinki nel 1975. “In pratica a Helsinki s’era creato un equilibrio fra le esigenze dell’Est e dell’Ovest– raccontò il cardinale Achille Silvestrini, ministro degli Esteri vaticano e protagonista con Agostino Casaroli della ostpolitik della Santa Sede-. Da un lato l’affermazione dell’inviolabilità delle frontiere e dell’integrità territoriale degli Stati rassicurava Mosca. Dall’altro lato ciò impediva ai sovietici ulteriori espansioni. Escludendo il rinnovarsi di episodi come i carri armati russi in Ungheria o gli interventi in Cecoslovacchia. E, infatti, dopo il 1975 non c’è stata più nessuna invasione sovietica in Europa”.Mosca aveva ottenuto quel che voleva. L’inviolabilità delle frontiere. Quindi la riconferma della divisione dell’Europa in due, come aveva preteso Stalin a Yalta. Ma da Helsinki era anche uscito il sostegno alla causa dei diritti umani. E al rispetto delle libertà individuali e collettive, compresa la libertà religiosa. Tutto questo aveva aperto una crepa nell’impero sovietico. Una fenditura che, allargandosi sempre più, aveva corroso dall’interno l’ideologia marxista. Nello stesso tempo, il 1989 aveva avuto anche una preparazione, per così dire, visibile. Alla luce del sole.

C’era stata la rivoluzione ungherese (1956) e la Primavera di Praga (1968). Ambedue soffocate tragicamente nel sangue. Ma poi, dall’inizio degli anni Settanta, il dissenso era spuntato un po’ in tutto l’Est europeo. Anche se in forme e modalità assai differenti. In Cecoslovacchia, era nata Charta 77, una protesta di élites, di circoli intellettuali. Mentre, in Polonia, il contrasto si era via via trasformato in un movimento di popolo.In Polonia, appunto. Un Paese con una popolazione a grande
maggioranza cattolica. E dove la Chiesa, forte, compatta, aveva un
profondo radicamento in tutti i settori sociali. Nel 1956, a Poznań, c’era stata la prima delle “piccole rivoluzioni”, come le chiamava il primate, il cardinale Stefan Wyszyński. Ma, pilotata da ambienti revisionisti, ancora interna al sistema, era finita nel nulla. Nel 1968, a rivoltarsi erano stati intellettuali e studenti. Nel 1970, sul Baltico, la prima vera rivolta operaia, i primi sindacati clandestini. Nel 1976, a Radom e Ursus, erano di nuovo scesi in piazza i lavoratori, ma stavolta con l’appoggio degli altri gruppi sociali. Da quella inedita solidarietà, quattro anni dopo, sarebbe nato il primo sindacato libero nell’impero comunista.Intanto, però, c’era stato un evento straordinario. Il 16 ottobre del
1978 dal conclave era uscito eletto il cardinale Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia. Il primo Papa non italiano, dopo 456 anni. Un Papa che veniva dall’altra parte della “cortina di ferro”. Ed è qui che la storia aveva avuto un soprassalto. Perché, proprio grazie a chi in quel momento sedeva sulla cattedra di Pietro, Solidarność prima aveva resistito alla repressione. E poi era diventato l’apripista del grande cambiamento in senso democratico all’Est. “Il comunismo è morto di comunismo, il moloch ha divorato se stesso”, scriverà Enzo Bettiza. Ma era stata la Polonia, “protetta” dal suo Papa, a dare il colpo del KO al regime marxista. Ad accelerarne il tracollo, il definitivo fallimento.Lo aveva riconosciuto anche Michail Gorbaciov, arrivato in Vaticano
nel dicembre del 1989. “Tutto ciò che è successo nell’Europa
orientale in questi ultimi anni non sarebbe stato possibile senza la
presenza di questo Papa. Senza il grande ruolo, anche politico, che
lui ha saputo giocare sulla scena mondiale“, disse l’ultimo capo dell’Urss. A questo punto, viene quasi naturale porsi una domanda. Ma se invece di un Papa polacco, e dunque un pontefice con quella provenienza, con quella biografia, con quella esperienza, ci fosse stato un Papa arrivato da un altro Paese comunista. Ad esempio, diciamo, ungherese, oppure cecoslovacco, o tedesco-orientale.  Ebbene, la caduta del Muro e il tramonto del marxismo, sarebbero avvenuti in tempi così incredibilmente brevi? E senza contrasti, senza gravi contraccolpi. E soprattutto, senza spargimenti di sangue? E ancora. Se quel 13 maggio Ali Ağca avesse mirato più “giusto” di come aveva tentato di fare? La storia dell’Europa, ma anche quella
del mondo intero, sarebbero andate nel modo in cui sono andate?
Oltre che per la riunificazione dell’Europa, l’azione svolta da papa Wojtyla si è poi sviluppata su vari fronti. Era stata determinante per il ritorno di molti Paesi latino-americani alla democrazia. Per ridare voce e dignità ai popoli del Sud. E, al tempo dei conflitti del Golfo, per evitare una spaventosa “guerra di civiltà”. I suoi viaggi avevano fatto sì che la Chiesa (con una crescente autorevolezza morale) fosse più vicina al mondo. E il mondo, a sua volta, più vicino alla Chiesa.

Spesso, nei momenti di crisi dell’umanità, con i “grandi” della terra pavidi e silenziosi, era stato soltanto lui, Wojtyla, a parlare. A intervenire, a denunciare. Soltanto lui a testimoniare la speranza in un futuro che poteva essere diverso. Nel segno della pace, della giustizia. “Tutto può cambiare”, ripeteva di continuo. “Sì, noi possiamo cambiare il corso degli eventi”.