Se l’Europa non mette al centro la persona

Pensando all’Europa, ho sempre visto un sogno che stava diventando realtà.  Un sogno cominciato il giorno dopo la fine del peggior incubo vissuto dall’uomo, nel periodo più buio della sua stessa storia. Almeno per ora. Certamente non sono mancate battute d’arresto e contraddizioni nella realizzazione di questo progetto, spesso la strada si è smarrita e i tecnicismi hanno preso il posto della visione politica, ma mai avrei messo in dubbio che sarebbe stata la migliore eredità possibile da lasciare ai nostri figli. Eppure oggi questa riflessione è inevitabile. Lo è dopo l’appello del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che chiede all’Europa di comprendere “la gravità prima che sia troppo tardi. Vecchi schemi sono ormai fuori dalla realtà. Attendiamo presto azioni concrete”.

L’intervento del Capo dello Stato, arrivato dopo la spaccatura al Consiglio europeo, ha sottolineato che stiamo vivendo una pagina triste della nostra storia e che il mondo ammira il nostro senso di responsabilità. Ha poi aggiunto: “Abbiamo superato periodo difficili e drammatici. Vi riusciremo certamente, insieme, anche questa volta”. Il richiamo indiretto è proprio, a mio avviso, al secondo dopoguerra quando un’Italia distrutta e perdente ha saputo risollevarsi ed entrare a far parte dei grandi della terra, diventando uno dei padri fondatori di quel sogno chiamato Europa. Una Europa che nasce divisa, lontana dai grandi ideali europeisti che però non saranno fermati né dalla cortina di ferro, né dalle difficoltà che la storia le presenterà. Almeno fino all’emergenza coronavirus.

Il 9 maggio 1950 Robert Schuman, allora ministro degli Esteri francese, propose la creazione di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio, la prima di una serie di istituzioni europee sovranazionali che avrebbero condotto a quella che si chiama oggi “Unione europea”. “Non si è fatta l’Europa, abbiamo avuto la guerra. L’Europa – disse Schuman – non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”.

Un cammino faticoso e difficile, ma che finalmente il 25 marzo 1957 diede vita a un esperimento unico nel mondo: i plenipotenziari di Francia, Germania, Italia, Belgio, Lussemburgo, Olanda, firmarono a Roma il Trattato che fece nascere la Comunità Economica Europea (CEE).

Come non tornare a quegli anni proprio oggi che siamo più che mai divisi, ripiegati su noi stessi e impauriti? Dove sono allora le azioni concrete e la solidarietà di fatto tanto invocate dai padri fondatori? Dov’è quell’”umanesimo integrale” pilastro della nostra cara e vecchia Europa? Il filosofo francese Jacques Maritain parlava infatti di un uomo moderno, chiuso nell’immanenza, in relazione alle sole forze dell’economia e della politica e riteneva necessario dimostrare che l’azione umana efficace è quella che si fonda sui mezzi spirituali, poveri, non autoritari, non ideologici. Lo scopo è il servizio alla persona, non la conquista o l’egemonia.

Ed è proprio in questo contesto culturale, che Adenauer, De Gasperi e Schuman, tre cattolici, nati in terre di confine dove i contrasti si amplificano e si comprendono meglio per imparare a convivere, leader di partiti cristiani, liberi dalle ideologie protagoniste della seconda guerra mondiale e dalla storia dell’Europa delle grandi potenze, cominciarono a gettare le basi di una nuova Europa, nata forse meno spontaneamente dell’impero, più politica e dettata da esigenze pratiche, soprattutto economiche, ma dove l’adesione richiese innanzitutto l’esercizio della libertà: decidere se entrarne a fare parte o meno. Alle soglie del terzo millennio, l’Europa è difronte ad un’emergenza mai vista e forse mai pensata e appare in crisi, disorientata e indecisa. Non c’è tempo, il virus corre più veloce delle diplomazie e della burocrazia. Il virus porta con sé morte, povertà, crisi economica. Si può restare a guardare o si può agire. Si può scegliere di farlo insieme, ancora una volta.