Quelle lobbies che hanno “spremuto” il Sud fino a soffocarlo

Vivo al Sud, in Sicilia, un’Isola con grandi tesori naturalistici, culturali, sociali, che ha scelto – per volontà di chi la governa – di chiudere gli accessi a tutti: cittadini italiani, turisti stranieri, persone migranti. Insomma, ha scelto di essere un’Isola. La questione dell’insularità, unita alla specialità statutaria, è da sempre croce e delizia per la Sicilia, una Regione che alle enormi potenzialità ha unito l’indolenza del sentirsi superiore, non utilizzando però il carisma culturale per accrescere il proprio benessere, bensì per esortare competenze, saperi e denari.

È un po’ l’eterna questione del Ponte sullo Stretto di Messina, un’opera pensata e mai realizzata, che avrebbe per sempre unito la Sicilia all’Italia e all’Europa, segno della voglia di agganciarsi al treno dello sviluppo, di avere finalmente infrastrutture efficienti, di ridurre i costi per chi vuol venire in Sicilia e per chi parte dalla Sicilia. Tanti siciliani, viceversa, hanno pensato e pensano che non bisogna unirsi, bisogna affermare l’insularità e la specialità, non costruire ponti, bensì muri.

Ecco perché da tempo affermo che al Sud, specie in Sicilia, lo sviluppo sia piuttosto legato al cambiamento culturale che alla capacità imprenditiva del capitale umano.

Perché la Sicilia avrebbe tutto per costruire un futuro virtuoso, ma non riesce a farlo per via delle lobbies che hanno “spremuto” il Sud fino a soffocarlo e che non permettono di liberare le energie positive che ancora ci sono, favorendo anche il rientro di chi è andato via a causa delle scelte scellerate.

Questa lunga premessa è necessaria per capire come interpretare “da Sud” gli effetti del Coronavirus. Perché tutto ciò che ho rappresentato vale anche oggi, anzi vale più oggi, ché abbiamo capito come la pandemia arrivata con il Covid-19 è stata nel Sud e in Sicilia molto attenuata, grazie al mix positivo fra il lockdown, il basso livello di inquinamento complessivo e le caratteristiche della struttura produttiva.

Sarebbe potuto essere un mix positivo per una terra che concentra le sue capacità produttive – pur con gravi contraddizioni – nel mix fra natura, beni culturali e turismo. Ma la realtà è che proprio i settori trainanti dell’economia Siciliana sono ancora tutti fermi: chiuse le attrazioni culturali, chiuse le strutture ricettive e ristorative, chiusi gli stabilimenti balneari e le altre realtà di valore ambientale.

Va detto, per amore di verità, che si tratta di iniziative imprenditoriali con un alto indice di spregiudicatezza e con collusioni con il fronte dell’illegalità, sempre in auge e pronto ad ampliare i suoi spazi di manovra. Una delle piaghe principali è quella del lavoro sommerso, fatto che nel tempo ha calmierato il fronte della povertà (comunque elevata) e fatto che oggi ha privato tante famiglie del “pane quotidiano”.

La realtà di oggi in Sicilia è che alla già ampia fetta di poveri assoluti e relativi – 26% (fonte ISTAT) – si stanno aggiungendo una marea di nuovi poveri, provenienti da settori economici disparati, ma tutti accomunati da forme di lavoro precario o sommerso.

Il futuro, visto dal tunnel “Covid-19” in cui siamo finiti, sembra un baratro senza fine e rischiano di caderci dentro proprio coloro che stavano già sull’orlo prima del blocco delle attività, cioè quella fascia di popolazione in seria difficoltà economica.

Se il resto d‘Italia riparte di slancio, proiettato verso uno sviluppo “drogato” dagli interessi di multinazionali e lobbies politiche, che hanno massimizzato il profitto a discapito della salute pubblica, il “dopo”, ovvero l’alba del ritorno alla normalità, nell’Isola fa paura solo a pensarci con il rischio di trovarsi il doppio dei già numerosi poveri.

Un rischio che ogni giorno di più diventa realtà, perché tante micro imprese, professionisti e partite Iva, lavoratori precari e stagionali, badanti, ambulanti,…hanno dovuto fermare la loro attività e non ripartiranno più, anche per l’inadeguatezza delle misure di aiuto a fronte di costi di gestione delle dette attività molto alti.

L’unica risposta che viene fornita dalla politica nazionale e regionale, è l’estensione a tutti degli strumenti assistenziali, in primis il Reddito di cittadinanza, che, nel bene e nel male, sta costituendo un forte ammortizzatore sociale.

Non c’è una proposta di rilancio, una forma di sostegno ancorata ad una ripartenza produttiva, la scelta ancora una volta di rinviare alle generazioni future il peso dell’incapacità politica ed economica.

Le grandi opere infrastrutturali, il recupero di luoghi paesaggistici di grande pregio, sono al palo, bloccate dal coacervo di interessi della malapolitica, della malaburocrazia e delle lobbies di affari e mafia. Anche qui, non si fanno scelte decise, quelle stesse che hanno permesso la ricostruzione del ponte di Genova in pochissimo tempo. Si preferisce l’attendismo, l’indolenza, il pietismo, che tuttavia nascondono interessi ben precisi, come quelli che stanno concentrando i terreni agricoli più fertili nelle mani di pochi imprenditori.

La Sicilia è e diventerà sempre più un “atollo tropicale”, un luogo in cui si concentreranno nelle mani di pochi le migliori risorse ed in cui tanti poveri suderanno un misero salario, incerto e insufficiente. Si potrà venire a prezzi molto alti – già è questa la situazione delle strutture e dei transfer in aereo e nave (i treni neanche arrivano più) – per un turismo di alto bordo e soprattutto estero. La pandemia è dunque un’occasione mancata, l’ennesima occasione mancata per dare alla Sicilia, ma soprattutto ai siciliani – gli stessi che nel mondo guidano le più grandi intraprese – un futuro.