Promuovere la morte

Quando la persona non vale più niente e la legge si mette dalla parte di chi vuole la sua distruzione, il sentore di un decadimento senza precedenti diventa certezza. Addirittura si può far credere il contrario nelle proprie battaglie e cioè che una legge come quella appena promossa al Senato sul Biotestamento, servirebbe per tutelare e rispettare la volontà del malato. Ma a molti nostri legislatori italiani non è bastato portare il testamento biologico, inteso come il seguire le indicazioni esplicite di un paziente che non desidera l’accanimento terapeutico: hanno voluto spingersi a legiferare, qualificandolo come un qualcosa di dignitoso, il lasciare morire di fame e di sete una persona. Esiste un problema di fondo, che è quello della consapevolezza del senso della vita: per un cristiano, questa ha valore sempre, anche nel dolore. Questo non significa dar adito all'accanimento teraupetico, poiché si scadrebbe in un attentato alla vita nell'interesse di qualcos'altro: la vita, però, non deve avere limiti che non siano quelli naturali.

Tra i punti che hanno maggiormente preoccupato le associazioni del mondo cattolico, le varie sfumature concertate nel cosiddetto “diritto alla morte”: un concetto che potrebbe essere introdotto inficiando su quello che è invece il “diritto alla vita”. E questo per una serie di ragioni, a cominciare dal considerare alla stregua di terapie i naturali doveri di assistenza, quali il nutrimento e il bere. Senza considerare l'ambiguità insita nel testo di legge in relazione al ruolo dei tutori i quali, in caso assistano persone incapaci di intendere e di volere, avrebbero la facoltà di decidere se interrompere o meno le cure: su di loro, in sostanza, graverebbe il peso di una pesantissima responsabilità decisionale quando, invece, sarebbe stato opportuno fornire loro maggior aiuto e strumenti più idonei per un'adeguata assistenza domestica dei malati terminali.

Altrettanto ambiguo il riferimento all'obiezione di coscienza: è opinione diffusa, fra i medici cattolici, che il concedere al paziente una facoltà autodeterminativa comporti il decadimento, in un certo senso, del consueto rapporto fra curante e curato. Un aspetto sostanziale che sembra escludere il concetto stesso di obiezione di coscienza, spingendo la classe medica all'uniformità sull'applicazione della legge anche nel caso di strutture a se stanti e con propri codici etici. Un vincolo che, pare, vada fortemente a influire su una proficua relazione innanzitutto umana fra medico e malato grave, annullando o, quantomeno, limitando fortemente quel ruolo di cura e di assistenza perpetua che è parte integrante di coloro che esercitano tale professione.  

Un quadro decisamente fosco, preoccupantemente pendente in direzione di un “diritto alla morte” che, in qualche modo, sembra aver portato il mondo istituzionale italiano a glissare su tutti quegli aspetti che andrebbero invece a costituire la struttura portante del diritto alla vita, a cominciare da una migliore politica di assistenza alle famiglie e ai loro cari gravemente malati. Ma, al contempo, il passaggio della legge indica come, nell'attuale scenario socio-politico del nostro Paese e il ruolo dei cattolici sia venuto meno, impotente nell'esprimere e far comprendere le motivazioni sulla propria contrarietà: colpa di una quasi totale assenza non soltanto dalla gestione complessiva della società ma anche dai punti che riguardano da vicino le proprie questioni morali. La politica italiana del terzo millennio non sembra più avvertire la presenza dei cattolici, perlomeno non in modo sostanziale. In attesa che qualche serio credente si faccia avanti per la prossima legislatura intanto non ci resta che prendere atto della totale delusione di questi politici che trasversalmente hanno festeggiato la promozione della morte.