Ai poveri l’assistenza, ai giovani il lavoro

Appena si è appresa la decisione del Governo di modificare la regolazione del reddito di cittadinanza, ecco che si minacciano le azioni forti e decise per contrastare questo proposito. A condurre la sfida contro la decisione è soprattutto Giuseppe Conte, che rivendicando la paternità del provvedimento che nacque come temporaneo e finalizzato alla occupazione, minaccia il governo di mettere a ferro e a fuoco il paese nel caso di cambiamenti. Si accusa il governo di colpire i poveri e di farlo in un momento di grave difficoltà per tante famiglie, ma non ci si rende conto che sono proprio i poveri ad essere danneggiati da questa politica errata.

Il reddito di cittadinanza venne concepito come una grande operazione sociale finalizzata ad inserire nel mondo del lavoro tante persone che ne erano escluse; ma i due milioni e cinquecentomila coinvolti nelle liste, a distanza di tre anni tali erano e tali sono rimasti. Eppure si assunsero circa 3 mila cosiddetti “navigator” che dovevano, seppur del tutto inesperti, secondo le narrazioni del primo governo Conte, indicare le strade più efficaci per occupare i disoccupati. E come se non bastasse si assunsero altre migliaia di persone presso i centri dell’impiego, ma di risultati non si sono avuti. Tre sono state le ragioni principali della debacle: la prima la inadeguatezza dei centri per l’impiego e dei navigator a causa della loro sostanziale estraneità dalle dinamiche concrete di incontro tra domanda ed offerta; la natura della legge istitutiva che non ha contemplato ne obblighi a formarsi professionalmente, né tantomeno condizioni chiare ad accettare obbligatoriamente eventuali offerte di lavoro; l’aver incluso persone occupabili e non, giovani che non hanno mai lavorato ed anziani nella parabola finale delle loro attività lavorative. Insomma una esperienza fallimentare costata sinora circa 50 miliardi, tra sussidi fruiti e nuovi assunti e strumenti collegati per le politiche attive in verità mai realizzate.

Dunque una esperienza sbagliata che ha avuto altissimi costi ed alcun beneficio. Ma dovremmo conteggiare anche il danno grave per la sensazione data ai giovani che si potesse vivere a carico dello Stato, anche rifiutando qualsiasi lavoro indesiderato. La verità è che due terzi della platea del reddito di cittadinanza sono inoccupabili: una parte non professionalizzata e dunque senza alcuna possibilità di essere desiderati dalle imprese; l’altra perché impossibilitata per età ed altre ragioni; un’altra parte ancora perché semplicemente non intendeva accettare proposte di lavoro e magari in alcuni casi lavorando in nero.

Dunque più che protestare è necessario subito rimediare modificando radicalmente la realtà delle cose. Ad esempio: separare nettamente i poveri che non possono lavorare per limiti gravi e per anni avanzati, includendoli nell’assistenza, mentre gli altri, i disoccupati con oltre 40, potranno conservare il sostegno alla condizione di essere disponibili al diritto dovere di percorsi formativi e di accettare offerte di lavoro come qualsiasi altro lavoratore. E poi i giovani certamente dovranno essere sostenuti da agenzie private e pubbliche per trovare loro un lavoro ed a fruire di altre agevolazioni non onerose, e dovranno essere disponibili come ogni altro giovane del mondo a iniziare le loro esperienze lavorative. Si parla di modifiche da apportare alle prime proposte governative, ed è un bene per tutti che la logica che le deve ispirare non possa che essere proprio il contrario della esperienza fatta sinora.