Il peccato della prepotenza

Ci sono due guerre da scongiurare: quella nel cuore dell’Europa e quella nell’animo umano. Le tensioni in Ucraina sono ormai un conflitto palese, alimentato, come tutti i focolai evocati da Papa Francesco, dal business planetario degli armamenti, unica industria a non conoscere mai né crisi né ristrutturazioni. I ragazzi ci chiedono conto di questa follia che precipita l’umanità nei meandri più oscuri della propria storia. Le trincee scavate nella steppa orientale richiamano tragicamente le linee del fronte nelle quali anche il nonno di Jorge Mario Bergoglio, come milioni europei, affrontò l’orrore del conflitto mondiale.

Un secolo fa Benedetto XV lanciò un grido disperato per “l’inutile strage”, poi in anni più recenti Giovanni Paolo II condannò la deriva dell’odio e della contrapposizione mortale: “Mai più la guerra”. Tra loro, esattamente sessanta anni fa, Giovanni XXIII contribuì a sventare la crisi missilistica di Cuba e mise nero su bianco nella “Pacem in Terris” la totale incompatibilità tra fede e violenza. Un caposaldo della dottrina che verrà poi immortalato negli incontri ecumenici di Assisi, dove tutti gli ultimi Pontefici hanno stigmatizzato l’uso strumentale della religione come pretesto per lotte sanguinarie di potere.

Fino alla sofferenza espressa dal Santo Padre per lo scandaloso spettacolo offerto al mondo da popoli cristiani che si scontrano in piena pandemia. Da dove nasce tanta rabbia? Come è possibile che nel 2022 ancora si pensi di affidare alla forza bruta la soluzione delle dispute geopolitiche? Non sarà che la guerra che provochiamo nel mondo è la stessa che ci tormenta nel petto? Suscita sconcerto, infatti, leggere quotidianamente di accanite guerriglie urbane desiderate, organizzate, consumate e diffuse sui social da quella che dovrebbe essere la “meglio gioventù”. Dietro ogni adolescente violento c’è un fallimento di noi adulti. Una società incapace di trasmettere valori e ideali alle nuove generazioni è una società impossibilitata a pacificarsi. Inutile invocare accomodamenti e compromessi al ribasso quando non si è capaci di vedere il travaglio all’interno delle nostre mura domestiche.

Un tempo il disagio giovanile (ora diventato preadolescenziale) si esprimeva in modi esteriori di differenziazione dalla collettività: abbigliamento, musica, linguaggio. Adesso, invece, il terreno di distanziamento generazionale è rappresentato da comportamenti criminali, condotte aberranti poi regolarmente esaltate attraverso la rete, al punto che molti sindaci e prefetti sono costretti a circoscrivere e sorvegliare porzioni di territorio per impedire che baby gang le trasformino in campi di battaglia.

Come possiamo poi meravigliarci se i prepotenti del pianeta affidano alle armi la risoluzione di controversie ammantate di false radici culturali, identitarie e persino religiose! Il vero potere è servizio agli ultimi, l’autentica forza interiore risiede nel dialogo. Chi alza la voce non è davvero sicuro delle proprie ragioni.

Noi adulti non possiamo cavarcela scaricando le responsabilità sui decisori o illudendoci che la questione non riguardi la nostra quotidianità. Un celebre scrittore esortava a non chiedersi mai per chi suona la campana, perché suona sempre per tutti noi. C’è un’unica arma che non potrà mai essere sconfitta: la forza della spiritualità che si esprime nella preghiera, nel digiuno, nella meditazione condivisa. Per essere credibili testimoni di pace, smettiamo di tirar pietre e ricordiamoci sempre che Gesù non ha avallato guerre e ha costantemente difeso il diritto ad essere perdonati. Non abbiano paura i governanti (e come loro chiunque avverta l’inadeguatezza della propria indifferenza) a fare un passo indietro, non è così che si perde la faccia. Sull’orlo di un precipizio avanzare è solo follia, fermarsi è segno di autentico ravvedimento.