Mors tua, vita mea… cosa ci insegna il coronavirus

Quello che stiamo vivendo nel mondo occidentale, ciò che sta accadendo in Italia a seguito del #coronavirus è una lezione di vita non richiesta, certamente non voluta, speriamo non veicolata, sicuramente da non dimenticare. Si è fermata la corsa, i motori si sono spenti, le fantasie sul futuro si sono annebbiate e siamo costretti a fare una scelta, più di una scelta.

I Governi corrono ai ripari, cercando di tutelarci per renderci meno insicuri, ma ciò che leggiamo e vediamo ogni giorno attraverso i media e talvolta proprio intorno a noi non è per nulla rassicurante. La Sanità annaspa, vittima di politiche scellerate di contrazione di cure e posti letto ospedalieri, con ingenti risorse spostate verso il privato di nicchia, quello che cura i ricchi e lascia senza protezione i poveri. Il Welfare sociale è stato frantumato nel tempo, poggiato sulle fragili spalle dei Comuni e tenuto in piedi dall’universo del no profit, un universo che però non ha dietro una politica organica e di adeguato sostegno. Chi oggi fa veramente fatica è il popolo delle persone più fragili: le persone anziane e sole, le persone che vivono senza una casa, le famiglie che hanno in casa persone fragili, i lavoratori precari…

Adesso, proprio adesso che sarebbe servito un sistema di Welfare forte, si scopre che questo sistema non esiste: esistono tante buone volontà, esistono eccellenze di contesti lungimiranti, ma oggi l’ascolto e il sostegno di queste fragilità è marginale. Lo dimostra anche il Decreto “Cura Italia” che mette in campo corpose misure di sostegno alla crisi, ma dimentica proprio il fatto che solo grazie ad un sistema di welfare forte e organizzato si può affrontare una crisi. Solo se si mettono in campo misure di sostegno alle organizzazioni in prima linea con le persone più fragili, si può evitare che tutti costoro si rivolgano al sistema sanitario per cure non indispensabili.

Proprio in questi giorni il Santo Padre sta insistendo molto sugli anziani che sono soli e nella paura: “Io vorrei che oggi pregassimo per gli anziani che soffrono questo momento in modo speciale, con una solitudine interna [interiore] molto grande e alle volte con tanta paura. Preghiamo il Signore perché sia vicino ai nostri nonni, alle nostre nonne, a tutti gli anziani e dia loro forza. Loro ci hanno dato la saggezza, la vita, la storia. Anche noi siamo vicini a loro con la preghiera”. Già, gli anziani che sono – nella fragilità di questo tempo – gli scarti della nostra società insieme a coloro che non hanno casa e non hanno patria. Sono coloro che muoiono più facilmente “con” il #coronavirus, ma sono anche coloro la cui vita – come accadeva ai tempi di guerra e come accade ancora oggi in molti Paesi poveri della terra – vale meno di altre.

Un medico di Bergamo scriveva qualche giorno fa: “Negli ospedali siamo come in guerra. Si decide (chi curare e chi no) in base all’età e alle condizioni di salute”. Una denuncia grave, ma assolutamente realistica per un Sistema sanitario che non regge l’urto e per un sistema di protezione sociale che manca. “All’interno del Pronto soccorso è stato aperto uno stanzone con venti posti letto, che viene utilizzato solo per eventi di massa. Lo chiamiamo Pemaf, ovvero Piano di emergenza per il maxi-afflusso. In quei letti vengono ammessi solo donne e uomini con la polmonite da Covid-19, affetti da insufficienza respiratoria. Gli altri, a casa. Li mettiamo in ventilazione non invasiva, che si chiama Niv. Poi il rianimatore valuta la capacità del paziente di guarire da un intervento rianimatorio. La ventilazione non invasiva è solo una fase di passaggio. Siccome purtroppo c’è sproporzione tra le risorse ospedaliere, i posti letto in terapia intensiva, e gli ammalati critici, non tutti vengono intubati. Quelli su cui si sceglie di proseguire vengono tutti intubati e pronati, ovvero messi a pancia in giù, perché questa manovra può favorire la ventilazione delle zone basse del polmone…e poi ci sono gli altri, i pazienti con gravi patologie cardiorespiratorie, e le persone con problemi gravi alle coronarie, perché tollerano male l’ipossia acuta e hanno poche probabilità di sopravvivere alla fase critica e le persone tra gli 80 e i 95 anni che hanno una grave insufficienza respiratoria”.

Operatori sanitari a lavoro a Padova – Foto © Nicola Fossella

Dunque non per tutti oggi esiste un diritto alla cura. Nel Paese dell’eccellenza sanitaria, il sistema non è in grado di farsi carico dell’ordinario e dello straordinario al tempo stesso. Purtroppo oggi come ieri ci sono vite che hanno un valore diverso, c’è la necessità di scegliere chi far vivere e chi lasciare morire.

Ci sono anche tante storie bellissime di conforto e di grande sensibilità, uniti alla professionalità degli operatori sanitari: “Faccio il rianimatore da anni, ma ora è diverso. Stanotte mi sono avvicinato a un anziano. Gli avevamo messo il casco per la respirazione. Lui si guardava intorno spaurito. Mi sono chinato e lui ha sussurrato: ma allora è vero? sono grave? Ho incrociato quel suo sguardo da cane bastonato e ho capito che stavolta non avevo risposte. Sai qual è la sensazione più drammatica? Vedere i pazienti morire da soli, ascoltarli mentre t’implorano di salutare figli e nipotini. I pazienti Covid-19 entrano soli, nessun parente li può assistere e, quando stanno per andarsene, lo intuiscono. Sono lucidi, non vanno in narcolessia. È come se stessero annegando, ma con tutto il tempo di capirlo. L’ultima è stato stanotte, era una nonnina, voleva vedere la nipote. Ho tirato fuori il telefonino e gliel’ho chiamata in video. Si sono salutate. Poco dopo se n’è andata. Ormai ho un lungo elenco di video-chiamate. La chiamo lista dell’addio. Spero ci diano dei mini iPad, ne basterebbero tre o quattro, per non farli morire da soli”.

Ho letto, sempre in questi giorni, la “Lettera di un soldato al fronte” che nel 1917 scrive da Caporetto alla madre, credo che possa e debba farci riflettere sul fatto che un Paese civile ripudia la guerra e punta sulla pace e sulla dignità di ogni uomo, di tutti gli uomini:

“Carissima madre, come state? Qui la situazione è terribile, non si può vivere e ogni giorno le bombe sono boati che sgretolano un’intera parte del mondo. La guerra è spietata sotto ogni aspetto: molti miei compagni rimpiangono giorno e notte di essersi allontanati dalle proprie famiglie per abbandonarsi alla presunta morte. Io però non mi arrendo, spero ancora di farcela e di uscire vivo da questo inferno. Voi non potete nemmeno immaginare quanto io soffra ogni ora per quello che vedo e sento. Ogni mattina mi alzo prestissimo al suono delle fucilate, tra i defunti della trincea e le persone morenti che esalano gli ultimi respiri pregando il buon Dio nell’attesa di trovare la pace. Quando arriva il mio turno provo un dolore e una tristezza infinita, quasi come un fuoco che brucia ogni speranza. Quasi per miracolo, riesco a resistere per qualche tempo. Questi casi sono i più disperati: devi uccidere senza guardare in faccia alcuno, non importa chi ti troverai davanti perché dovrai ugualmente sparare, e farlo quasi con fierezza o passione; dovrai continuare, senza poterti opporre agli ordini, anche se avrai la polvere negli occhi e le lacrime nel cuore. E in quei momenti sai che stai commettendo del male, ma non puoi fermarti, anche se sei consapevole che chi sta al di là di quel confine è giovane come te e non è colpa sua se indossa una divisa di un altro colore o alza una bandiera diversa dalla tua. C’è invece chi muore di fame e di stenti, anche perché il cibo è scarso e quel poco che possiamo mettere sotto i denti è rancido. I più deboli muoiono per colpa del freddo che ci tormenta dalla sera al mattino. Le coperte, infatti, sono poche e chi riesce a procurarsele è così avido da non volerle condividere con nessuno. Alla fine di una settimana abbiamo conquistato o perso solo pochi metri, che ai miei occhi sembrano solo allagati dal caldo sangue innocente di chi ha lottato fino alla fine. Sono stufo, mia carissima e preziosissima madre, di tutto quello che sta succedendo; qui si sta verificando l’impossibile: morti a destra, morti a sinistra, morti dietro ai miei lenti passi scoraggiati. Ognuno di noi sa che non può in alcun modo tornare indietro e recuperare ciò che è ormai  perduto per sempre: la vita di un amico, di un fratello lontano che ora non può più abbracciare. Basta, basta, basta! Non ne posso più, ho il cuore freddo come una pietra e le lacrime calde che parlano da sole: ho ucciso. Non credevo che sarei mai stato capace di spezzare la vita di un uomo  così velocemente, senza permettere di dare ad entrambi un senso all’orrore della guerra. Chi non prova a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo e detta solo leggi dalla propria scrivania, dicendo di combattere sempre e comunque, non sa che cosa noi abbiamo visto, udito, provato, e non potrà mai, dico mai, rendersene conto. Solamente ora, ahimè, capisco che a noi qui non è rimasto più niente, solo i boati nelle orecchie, il freddo sulle gambe, il respiro dell’ingiustizia nella mente e il peso di vite umane che grava sul cuore, e guardando come incantato il mondo intorno a me, per la prima volta nella mia vita, ho paura”.

Se il coronavirus sarà stato in grado di farci riscoprire il valore della fratellanza, allora davvero non sarà più “mors tua, vita mea”, ma saremo insieme lungo il cammino della vita, per garantire a chi nasce un mondo migliore ed a chi è fragile un mondo più giusto.