La fede che cambia la storia più delle pallottole

La Chiesa attinge dalla sua sapienza bimillenaria la capacità di superare i momenti più bui della storia universale. Accadde così 39 anni fa per l’attentato a Giovanni Paolo II che stava per far crollare il fragile equilibrio internazionale della guerra fredda, avverrà anche oggi per la pandemia mondiale di coronavirus. Il cardinale Achille Silvestrini, ministro degli Esteri vaticano, non ebbe mai dubbi su chi fossero i mandanti di Alì Agca. Secondo l’artefice con Agostino Casaroli della ostopolitik pontificia, il 13 maggio 1981, solennità della Madonna di Fatima, ad armare la mano del terrorista turco fu l’Unione Sovietica. “Si capì subito che il mondo comunista non avrebbe sopportato a lungo quella “mina vagante”. Troppo pericolosa, Solidarność! Troppo destabilizzante!- ricorda a Interris.it il decano dei vaticanisti, Gianfranco Svidercoschi, amico e collaboratore di Karol Wojtyla-. La sua stessa esistenza era un attacco al cuore del marxismo, della sua ideologia. E infatti, già nell’autunno del 1980 cominciarono a circolare voci minacciose. I servizi segreti occidentali parlavano addirittura di una possibile invasione della Polonia, da parte delle truppe dell’Armata Rossa, qualora si fosse acuito lo scontro tra il governo di Varsavia e Solidarność, guidata da Wałęsa”. Giovanni Paolo II sentì il dovere di intervenire, in difesa della nazione polacca ma anche, più in generale, in difesa della libertà dei popoli di decidere del proprio destino. Così, il 16 dicembre, compì un gesto incredibile quanto coraggioso. Scrisse a Brèžnev, presidente dell’Urss, manifestandogli “la preoccupazione dell’Europa e del mondo per la tensione creata dagli eventi interni che si sono verificati in Polonia negli ultimi mesi. Il tono della lettera era molto formale e lo stile quello usato in diplomazia; ma c’era una durezza di fondo che non poteva non colpire. A cominciare da quell’esplicito riferimento all’ “aggressione” hitleriana del 1939, e che, implicitamente, voleva ricordare come la Polonia, nello stesso periodo, fosse stata invasa a Est dall’esercito sovietico. Secondo riferimento, quello alla tragedia della Polonia, e al sacrificio di tanti suoi figli, durante la Seconda guerra mondiale; e poi, il richiamo all’Atto finale di Helsinki, alla responsabilità di ogni nazione nei propri affari “interni”. E alla fine: “Confido che voglia fare tutto ciò che è in suo potere per dissipare l’attuale tensione”. Quella lettera non ebbe mai una risposta. A Mosca avevano deciso: Solidarność doveva sparire; e questo non si poteva certo anticiparlo al Papa polacco. Ma se non ci fu nessuna risposta scritta, qualcun altro si incaricò di “rispondere”, seppure in altro modo: non per conto di Brèžnev, questo no, ma di ambienti che, passando attraverso una lunga serie di scatole cinesi, erano collegabili ai servizi segreti sovietici. Era il 13 maggio del 1981. Piazza san Pietro, cuore della cristianità. Quasi non si sentirono i due colpi sparati contro Karol Wojtyla. Era mercoledì, c’era l’udienza generale. Giovanni Paolo II sulla papamobile stava facendo il giro della piazza per salutare i fedeli. Aveva appena preso in braccio una bambina bionda, l’aveva alzata in alto come per farla vedere a tutti, e l’aveva restituita ai genitori. Proprio in quel momento, ma coperto dal rumore della gente, ci fu il primo colpo, poi il secondo, e il Papa cominciò a piegarsi con una smorfia di dolore, fino a scivolare tra le braccia del suo segretario, monsignor Stanislao Dziwisz. La jeep partì a grande velocità verso i servizi sanitari all’interno del Vaticano, quindi al Gemelli. La situazione era decisamente grave. Wojtyla era in pericolo di vita, al punto che gli venne amministrata l’unzione degli infermi. Ma, benché lunghissimo e complicatissimo, l’intervento chirurgico riuscì perfettamente. Però non era ancora finita. Ci fu un seguito ugualmente drammatico, a causa di una infezione diagnosticata a fatica, per cui si rese necessario un secondo intervento. E poi, finalmente, Giovanni Paolo II poté fare ritorno a casa. In quei giorni, in ospedale, aveva più volte riflettuto su quella singolare coincidenza, fra il 13 maggio dell’attentato e il 13 maggio del 1917, quando c’era stata la prima apparizione della Vergine a Fatima; e finì per convincersi che fosse stata la Madonna a salvarlo. E ne concluse: “Una mano ha sparato e un’altra mano ha guidato la pallottola“. Per questo, volle che quella pallottola fosse incastonata nella corona della statua della Vergine a Fatima. E, quella “mano che ha sparato”, il Papa due anni dopo ebbe il coraggio di stringerla, quando andò a trovare a Rebibbia il suo attentatore, Mehmet Ali Ağca. Un turco, appartenente a un gruppo criminale, i “Lupi grigi”, e lui stesso autore di alcuni delitti, arrestato, incarcerato, e misteriosamente (o non tanto) liberato. Dopo aver sparato al Papa, aveva tentato di fuggire, ma era stato bloccato prima da una suora e poi dalla polizia. Un killer professionista, senza dubbio. Ma mandato da chi? Cadute, l’una dopo l’altra, le ipotesi di una “pista bulgara” e di una “pista islamica”, restava inevitabilmente il sospetto che l’ordine di uccidere fosse venuto, se non proprio dal Cremlino, quantomeno dal Kgb o da schegge impazzite dei servizi segreti. C’era da tener conto dello scenario di quel tempo. L’elezione di un Papa polacco che aveva provocato enorme sconcerto tra i capi comunisti. Il suo primo ritorno in patria che aveva creato una atmosfera di libertà in tutto l’Est. La nascita di Solidarność, che rappresentava ogni giorno di più una insopportabile provocazione per il “sistema”. E ancora, il fatto che stesse morendo il cardinale Wyszyński, primate di Polonia, e fiero avversario del regime. Allora, messi insieme tutti questi elementi, non si finisce sempre per tornare allo stesso punto di partenza? Non si finisce sempre per risalire a Mosca e dintorni  per capire chi volesse far fuori Karol Wojtyla, in quanto “grande protettore” di Solidarność dal Vaticano?

Oltretutto, quando il Papa andò a trovarlo in carcere, sperando invano che chiedesse perdono, Ali Ağca lo accolse con quella domanda che, senza che lui se ne rendesse conto, era estremamente rivelatrice: “Ma perché lei non è morto? Io so di aver mirato come dovevo…“. Perché doveva? C’era qualcuno, evidentemente, che gli aveva “commissionato” quell’assassinio; e lui aveva tirato fuori la sua Browning calibro 9, per eseguire l’“incarico” per il quale era stato profumatamente pagato. “Ma la Provvidenza aveva evidentemente altri piani”, osservava il cardinale Silvestrini.