La civiltà stuprata

Gli spot pubblicitari sono ormai il termometro della nostra società. Sull’opinione pubblica sono piombati nelle ultime settimane slogan commerciali e tam tam digitali ispirati da aperta volontà blasfema o da palese mercificazione della Parola di Dio. Gli ultimi Papi hanno insegnato la corretta concezione di laicità, stigmatizzando la dilagante cristianofobia nel mondo occidentale sempre più secolarizzato. Desacralizzare la fede equivale ad insultare e denigrare centinaia di milioni di credenti. Due millenni di civiltà vengono così degradati nel volgere di pochi istanti, il tempo di scandalizzare i vari idolatri del mercato multimediale delle oscenità contrabbandate per espressioni di creatività e di libertà espressiva, al punto da essere persino premiate da qualificate giurie composte da esperti comunicatori. E qui sta l’epicentro del degrado. Nel nome del “dio denaro” è consuetudine chiudere un occhio, o tutti e due, sulle più violente e offensive blasfemie. Si dice che l’opposto dell’amore non sia l’odio ma l’indifferenza, e ciò viene confermato dal silenzio complice di tanta parte dei nuovi farisei che si mimetizzano, a fasi alterne, con coscienza ad intermittenza, tra i moderni cultori della falsa tolleranza, come se stuprare la propria identità millenaria fosse il prezzo per dialogare con chi ti disprezza. Viene tristemente in mente il biblico piatto di lenticchie che anche tanti fedeli togati si accontentano di ricevere in cambio della loro omertosa pavidità.

Eppure, il contemporaneo uomo di pace per eccellenza, Papa Francesco, ha spiegato con immaginifica franchezza che, se persino un amico insultasse sua madre, riceverebbe un metaforico pugno. Invece noi niente! Si può addirittura sbeffeggiare l’atto costitutivo della fede cristiana: l’Annunciazione dell’angelo Gabriele alla Vergine Maria. Viene esaltato con estrema naturalezza chi per pubblicizzare un contraccettivo vilipende i fondamentali della religione, senza che nessun educatore si senta in diritto e dovere di obiettare, come attesta la saggezza popolare che con i fanti si può scherzare ma con i santi no. Ma soprattutto lo fanno perché sanno di poterlo fare speculando cinicamente sulle reazioni giustamente sdegnate dei veri credenti.

Utilizzare le sensibilità moralmente (dis)orientate è ancora più sottilmente demoniaco perché così le si contamina di perfido calcolo. Scadere fino a realizzare uno spot-bestemmia è ignobile. Premiarlo è diabolico. Si può cadere nel peccato per un’infinità di motivi: ambizione sfrenata, spregiudicata ignoranza, culto del male. Ma ancora più spregevole è voler innalzare la blasfemia a manifestazione di talento artistico. In realtà si insegna a calpestare quell’arte che nelle sue espressioni più sublimi riesce a unire cielo e terra. Negli ospedali si mostrano ai malati terminali i capolavori della pittura medievale per donare sollievo, mentre nella reclame cristianofobica l’arte sacra viene derisa, infangata e umiliata come si fa quando la bellezza viene sfregiata per odio, frustrazione e bassezza morale. La colpa non è dei nostri ragazzi ma di quanti favoriscono e poi legittimano il loro sbandamento. Restare in silenzio davanti ad uno stupro della coscienza collettiva è paragonabile ad assistere con menefreghismo allo scempio perpetrato su una tela di Leonardo o del Botticelli. La piaga di un anticonformismo d’accatto contagia istituti scolastici strappando, attraverso i social, il ghigno malefico di un’utenza telematica sempre più imbarbarita. Come sempre i ragazzi non sono il problema, bensì l’effetto di una causa da rintracciare in un’età adulta ormai liquefatta dall’irresponsabilità di massa. Fino a poco tempo fa una bestemmia al bar squalificava al rango di zotico; adesso invece, disseminare di incivili blasfemie l’etere e l’immaginario digitale, merita molti like. E persino un riconoscimento pubblico. Condividere un valore è segno di predilezione divina. A soffiare sul fumo di satana, invece, si finisce arrostiti.