Le medaglie olimpiche hanno riacceso il dibattito sull’opportunità di estendere la cittadinanza ai figli di stranieri che vivono in Italia. Il tema dell’integrazione dei minori nati in Italia, che frequentano le nostre scuole e le nostre palestre, riprende quota nella discussione pubblica.
Va detto subito che i criteri per l’acquisto della cittadinanza presentano aspetti non del tutto coerenti. La disparità di trattamento è evidente tra il bambino nato in territorio italiano che può ottenere la cittadinanza solo dopo il raggiungimento della maggiore età, rispetto a colui che nasce all’estero e poi si stabilisce in Italia, al quale la stessa può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, dopo dieci anni di residenza (art. 9, l. n. 91/92). La legge n. 91 del 1992 è stata pensata per rinsaldare il legame con gli italiani emigrati all’estero, attraverso lo jus sanguinis che attribuisce la cittadinanza ai nipoti di antenati cittadini, residenti in Italia da almeno due anni. Secondo un recente sondaggio, il 52% degli italiani sarebbe favorevole ad una legislazione che assecondi l’idea di cittadinanza moderna ed inclusiva. La realizzazione dello jus scholae, a differenza dello jus soli che vede la netta contrarietà della maggioranza degli intervistati, incontra l’approvazione di un fronte trasversale. Sei italiani su dieci vedono di buon grado l’estensione della cittadinanza ai giovani cresciuti nel nostro Paese.
I modelli liberal democratici delle società contemporanee attribuiscono la titolarità formale di diritti e doveri alla persona, con l’unica preclusione del diritto di voto, del dovere di difesa della Patria e di fedeltà alla Repubblica, riservati ai cittadini. Lo storico privilegio collegato allo status civitatis si è progressivamente affievolito. La Costituzione riconosce i diritti fondamentali, come quello alla salute, allo studio, al benessere psico- fisico, non solo al cittadino, ma “all’uomo in quanto tale” (art.2). Dal canto suo, la Corte costituzionale ha esteso agli stranieri anche i diritti che la Costituzione riferiva formalmente ai soli cittadini, sulla base della considerazione che non è ragionevole escludere i non cittadini dal godimento delle libertà e dall’adempimento dei doveri di solidarietà.
Alla luce di tali profondi cambiamenti si impone un aggiornamento della cittadinanza, trattandosi, di un concetto da connettere all’idea di appartenenza alla comunità nazionale e alla rassicurante sensazione di essere parte del gruppo. Il 62% dei ragazzi senza cittadinanza interpellati temono, infatti, di non sentirsi riconosciuti nel Paese in cui vivono e di non potervi rimanere per le difficoltà lavorative dei genitori.
Le proposte di modifica dei criteri di acquisizione dello status di cittadino dovrebbero considerare la residenza sul territorio come aspetto relazionale, di estrema importanza per instaurare rapporti umani, per coltivare nella persona un senso di vicinanza, inteso come legame con lo Stato e con gli altri consociati. La condivisione degli spazi pubblici agevola influenze e contaminazioni, così ponendo le premesse per costruire la dimensione dell’appartenenza e della partecipazione.
Del resto, nel corso degli ultimi decenni, l’Italia si è progressivamente trasformata da paese di emigrazione a terra con un considerevole tasso di immigrazione. Così come l’Europa, dopo la caduta del muro di Berlino, la fine dell’Unione sovietica e l’allargamento dell’U.E., ha cambiato volto, divenendo area di immigrazione. Un cambiamento tanto radicale avrebbe richiesto un ripensamento delle normative al fine di valorizzare la relazione con l’ambito spaziale per l’acquisto della cittadinanza da parte dei minori che vivono fin dalla nascita nel nostro Paese. Nel corso delle legislature più recenti sono stati presentati più di cento progetti di legge in materia, per ridefinire lo status di cittadino, con riferimento alla nascita nel territorio nazionale, al possesso di un permesso di lungo soggiornante di uno dei due genitori del figlio minore, ai requisiti di integrazione linguistica e culturale. Le proposte richiedono anche la frequenza di un ciclo scolastico di almeno cinque anni e il conseguimento di un titolo di studio, presso istituti scolastici appartenenti al sistema nazionale di istruzione. Già la Carta dei valori, della cittadinanza e dell’integrazione, approvata in Italia nel 2007, rivolta alle seconde generazioni di stranieri, prevedeva per l’ottenimento della cittadinanza italiana “la conoscenza della lingua, degli elementi essenziali della storia e della cultura nazionali”, nonché dei principi fondamentali della Costituzione. Presupposto indispensabile per una reale integrazione, che esige l’accettazione leale ed incondizionata del valore dell’eguaglianza tra ragazze e ragazzi, della libertà e della democrazia, del ripudio di ogni forma di violenza. Perché – come si legge nella stessa Carta dei valori – “vivere sulla stessa terra vuol dire poter essere pienamente cittadini insieme e far propri con lealtà e coerenza valori e responsabilità comuni”.
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