IL VIRUS DELL’ODIO

Mentre scorrevano le immagini televisive di questo nuovo atto di follia ho ascoltato un bambino di sette anni esclamare con aria afflitta: “Ma io ci arriverò almeno a dieci anni?”. Questa improvvisa esternazione mi ha fatto riflettere su quanto sta producendo il terrorismo: paura e insicurezza. Nella psicologia degli occidentali è ritornata quell’incertezza del vivere che hanno sperimentato i nostri bisnonni durante le guerre mondiali. Questo nuovo conflitto planetario, unico nei modi e nella forma, lascia le superpotenze del tutto impreparate. I carrarmati non bastano e neanche servono per fermare i kamikaze che ogni volta agiscono imprevedibili. I terroristi utilizzano la strategia di colpire strutture turistiche, luoghi affollati, anche per avere la maggiore risonanza possibile a livello internazionale.

I criminali del terrore escogitano atti sempre più deliranti per sconvolgere il globo gridando rancore cieco e tanta rabbia contro il presunto nemico. Le stragi sembrano non fermarsi mai; sempre più individui sono costretti a pagare il carissimo prezzo di un peccato sociale senza precedenti. Viene da chiedersi se il mondo, attualmente così tanto calpestato, possa recuperare stabilità, armonia e dignità. Lascia sconfortati una tale durezza di cuore e di mente aliena da qualsiasi forma di dialogo, disponibilità a comprendere le ragioni dell’altro, porgere l’altra guancia, cedere il posto, venirsi incontro. Anche i cosiddetti “folli”, come il ragazzo che ha sparato per odio e vendetta dei mali subiti, fanno parte comunque di questa psicosi che contagia le menti più deboli e quelle più ferite della società.

L’attentato avvenuto in Germania, a Monaco infatti è stato messo in atto da Ali Sonboly un ragazzo di appena 18 anni. Una persona nata e cresciuta in Baviera, di nazionalità tedesco-iraniana, che ha fatto fuoco sulla folla prima davanti a un fast food e poi tra i negozi di un affollato centro commerciale. Dopo aver ucciso 9 persone e averne ferite 16, ha messo fine alla sua crudele mattanza togliendosi la vita. Durante i momenti convulsi che hanno seguito il massacro si sono rincorse tante voci e Monaco è stata per diverse ore sotto coprifuoco.

Le televisioni e i giornali – giustamente – tengono tutti i riflettori puntati su queste vicende nonostante qualcuno vorrebbe spegnerli o comunque ci prova, come il signor Erdogan. Nell’era dei social tutto viene presentato all’istante e riesce a fare più colpo chi riesce a mostrare qualche immagine in esclusiva prima degli altri, possibilmente la più scottante o scioccante nella speranza che diventi virale. Le tragedie quindi si fanno leggere da tutti e oggi chiunque può pubblicare il proprio pensiero.

Gli analisti della politica sono super impegnati a capire gli umori e le emozioni della gente e allo stesso tempo cercano di gestire chi, nella comunicazione, possa fare da megafono al proprio padrone. Per non parlare poi delle tante tesi complottiste le quali spiegano come nulla avvenga casualmente bensì il tutto sarebbe voluto, programmato e pilotato da mani consapevoli e coscienti. Secondo tale ipotesi i veri responsabili di questa guerra non vivrebbero lontani da noi, ma addirittura farebbero parte della nostra famiglia occidentale.

In ogni caso, dinanzi a questo scenario di imponente attenzione da parte dei media, c’è un altro rischio, ormai scontato e impossibile da non tenere in considerazione: l’effetto emulazione. Il capo della polizia di Monaco, infatti, ha osservato che “è evidente il legame” dell’eccidio con la strage compiuta da Breivik a Utoya 5 anni fa di cui proprio venerdì cadeva il quinto anniversario. L’auspicio è che un dramma come quello avvenuto, al di là del pianto e del cordoglio per le vittime, possa aiutare ad unire anziché dividere le persone, anche nella diversità di opinioni e condizioni, ribadendo con forza il “no” verso ogni forma violenza e il “sì” alla cultura dell’incontro, autentica “medicina” per curare le ferite dell’umanità contemporanea.