Il veleno del serpente è l'invidia

Socrate riteneva che l’invidia fosse “l’ulcera dell’anima”. Papa Francesco l’ha chiamata senza remore “veleno mortale”. In ogni epoca storica e in tutte le società umane, l’invidia esiste come istinto perverso e potente, che miete vittime numerose anche nel mondo cattolico. Rappresenta una delle armi più micidiali e più affilate di satana, efficacissima perché capace di insinuarsi nell’intimità più profonda della sfera dei sentimenti e delle emozioni, stravolgendo l’equilibrio psicologico delle persone e divorandone il cuore. Ciò accade nella misura in cui chi ne è vittima ha un bisogno patologico di esistere al solo scopo di affermarsi, di primeggiare, di sopraffare, di competere e lo fà, se necessario, con ogni spregiudicatezza cioè alla maniera del fine che giustifica i mezzi, mentre il male che ricade sull’altro da simili comportamenti non solo è irrilevante ma è parte voluta dell’obiettivo raggiunto. E’ tragicamente emblematica la vicenda di Caino e Abele: fratelli nel sangue che si volevano bene ma che a un certo punto non riescono addirittura a sopravvivere a causa del veleno mortale che ha devastato la mente e il cuore di Caino. 

Fratelli-coltelli dunque, tragica metafora dell’invidia persino familiare. L’insana competizione, del resto, altera profondamente la convivenza tra le persone, minacciandone equilibrio ed armonia. Infatti la competizione, di per sé, non è un male assoluto anzi può risultare molto positiva nella misura in cui sollecita la creatività, gli apporti, i contributi personali per fecondare e moltiplicare i talenti degli altri, promuovendo la crescita e il valore di una comunità. Ma è nel momento in cui l’invidia si insinua, come il serpente nell’Eden, che la competitività genera morte, desiderio di fiaccare l’altro fino a distruggerlo al fine di accaparrarsi l’esclusiva, il copyright di un io malato. L’invidia crea perciò un falso assolutismo, un’illusione idolatrica e profondamente narcisistica. Si tratta di una vera e propria dittatura diabolica, non solo sul singolo ma su intere comunità. Anche cristiane. 

Ed ecco che realtà ecclesiali, gruppi spirituali, comunità, fraternità e movimenti rischiano di vivere anch’essi all’insegna di una smodata autoreferenzialità, di un carisma che pretendono esclusivo, il migliore di tutti ma che in realtà è profondamente escludente anzichè inclusivo, come il sacrificio della Croce comanda. Si tratta di dinamiche note nella storia della Chiesa, che talvolta ne hanno minacciato la sua stessa sopravvivenza. 

E ben nota è la volontà deleteria di omologare, di appiattire al fine di contenere se non soffocare il seme più autentico della vita ecclesiale che è la creatività. Lo stesso Vangelo ci restituisce l’immagine degli apostoli che litigano per stabilire chi siederà alla destra di Gesù e, molto umanamente, intravedono posizioni di potere laddove Gesù colloca invece soltanto il servizio, e servizio incondizionato. 

Il medesimo pericolo è costantemente in agguato nel cuore di coloro che, in ogni tempo, hanno avuto la responsabilità di difendere la comunità cristiana. L’invidia è il virus che infrange e disperde il bene assoluto dell’essere e del fare comunione, fondamento dell’Ecclesia. Tuttavia la Chiesa ha sempre patito la tentazione del potere, del narcisismo,della volontà deleteria di primeggiare, del desiderio di emergere, dell’ambizione smodata di sopraffare l’altro demolendolo. E’ la retribuzione del demonio a chi si abbandona alla criminale istintività dell’invidia. “Se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi gli uni gli altri”, raccomanda San Paolo ai Galati. 

L’invidia, quindi, come notte del cuore, dell’anima, del mondo cristiano che si fa preda di guerre fratricide, che si ferisce e implode nel momento in cui sceglie di tradire e rinnegare sé stesso. E’ la deriva di cui parla continuamente ed efficacemente Papa Francesco quando condanna “l’ufficio dei chiacchieroni”, “l’erba cattiva che sta germogliando dentro di noi”, “le false accuse e la malizia con le quali si vuole distruggere in modo premeditato la buona fama dell’altro, per invidia della sua bontà”. Il monito del Pontefice contro le mormorazioni e l’invito a correggersi dalle gelosie che spingono a parlare male gli uni degli altri poggiano sul Libro della Sapienza: “per l’invidia del diavolo è entrata nel mondo la morte”. 

L’invidia porta a “distruggere l’altro, ad uccidere il futuro di una persona e di una comunità, fa diventare gialla l’anima come il liquido biliare quando si è ammalati”. Il Papa parla alla Chiesa perché il mondo intenda. La voce della galassia cristiana è credibile all’esterno solo se all’interno si affranca da questo male oscuro. Gesù è stato crocifisso a causa dell’invidia satanica. La stessa che ancora oggi è instancabile nell’abbattere gli uomini, sgretolare la speranza, diffondere sgomento e sfiducia: tuttavia il sacrifico mai invano della Croce e il baluardo del Vangelo sono i testimoni eterni della speranza, della “buona novella” malgrado gufi e serpi velenose. Nè ci scoraggiano coloro che, come pretesto, usano persino il nome di Dio e il magistero per distruggere il prossimo scomodo ma pur sempre meritevole di stima, affetto e misericordia.