Il ruolo mancato dell’Onu in Ucraina

Ucraina

L’uso della forza, che se immorale è violenza, anche se non sempre è il caso, è strettamente vincolato, a sua volta, non a distruggere l’aggressore, ma solo a porlo in una situazione di non nuocere, a disarmarlo, a disinnescare il potenziale bellico con cui offende indiscriminatamente. La logica ad esso soggiacente non è vendicativa, perché non dimentica la dignità della persona umana dell’aggressore, ma punta a renderlo appunto innocuo. Non è quindi da pensare una guerra totale, anche se solo convenzionale, cioè senza l’uso di ordigni nucleari, che giunga per esempio a coinvolgere interi paesi in una ritorsione infinita, ma solo puntuali azioni belliche atte allo scopo di cui sopra si diceva. Non sempre è semplice operare questa distinzione in actu, quando per esempio le conoscenze disponibili sono poche e insicure, oppure quando gli stessi interventi militari sfuggono ad una misurazione precisa. Tuttavia il criterio rimane, per lo meno a livello orientativo, valido.

Certo la diplomazia deve continuare ad operare, anche perché dovrà riprendere al momento della fine delle ostilità belliche, a meno che non si presenti lo scenario imperialistico che muove la guerra russo-ucraina. Tuttavia, ciò che può essere utile per la soluzione del problema-guerra non è la considerazione unilaterale o della via diplomatica o della via umanitaria o della via economico-finanziaria o della via difensivo-militare, ma la sinergia delle quattro. Occorre agire in modo convergente su più fronti per ottenere il risultato di una cessazione delle ostilità o per lo meno di un ‘cessate il fuoco’. Le prime tre sono assicurate, nonostante difficoltà realizzative e applicative e fallimenti; la quarta occorre porla in atto, con discrezione e efficacia, quando le vittime – morti e feriti – degli orrori di questa guerra ingiusta crescono e non possono più lasciarci impassibili e rassegnati spettatori alla violenza altrui. È il sacrosanto diritto alla legittima difesa, a disarmare l’aggressore, a impedirgli che continui indiscriminatamente ad uccidere e a ferire.

E occorre, anche in situazioni tragiche e drammatiche, non smettere di pensare al futuro, migliore del presente, quando cessata l’attuale insensata guerra, si dovrà gestire il dopo-guerra, qualunque esso sarà, perché la distruzione delle persone, delle famiglie e delle città, non inneschi una crisi depressiva che dilapidi ogni seppur piccola risorsa di bene. Occorrerà una leadership forte e coraggiosa e lungimirante, che sappia guidare un popolo colpito, quello ucraino, verso la realizzazione della propria identità morale e religiosa nel concerto degli altri Paesi.

A incidere sul conflitto russo-ucraina (nella direzione dell’ingerenza umanitaria) poteva essere l’autorità mondiale, l’ONU. Purtroppo ciò non è avvenuto perché tale autorità al momento difetta di quella trasparenza decisionale e di quella efficacia operativa che sarebbero richieste. Basti pensare che la Confederazione russa siede nel Consiglio di sicurezza, che delibera all’unanimità dei suoi membri e a cui attualmente spetta assumere decisioni a proposito dell’invasione russa in Ucraina. Il semplice veto russo è in grado di bloccarle. Siamo di fronte ad un’impasse molto importante che segnala deplorevolmente la debolezza dell’istituzione mondiale, che da molte parti, anche dalla Chiesa Cattolica, si è richiesto di riformare. Il diritto a reagire all’invasore scatta quando la situazione aggressiva è estrema e ogni altra iniziativa di pacifica trattativa negoziale è fallita, ivi incluso l’effetto deterrente delle sanzioni economiche, mentre persone deboli e totalmente esposte continuano a cadere uccise o colpite sotto i colpi balistici o missilistici inferti con inaudita ferocia da impianti molto sofisticati. Siamo di fronte ad una extrema ratio, la cui urgenza per la tempistica e la cui emergenza per i beni personali coinvolti richiede una risposta hic et nunc puntuale e precisa, incompatibile con i tempi diplomatici troppo lunghi e incerti. Del resto, da un punto di vista etico, è ulteriormente in gioco la questione di una specifica connivenza, quella di chi lascia che sia aggredita a morte la popolazione che può in qualche modo aiutare a sfuggire ad un destino così disumano. La legittima difesa non alimenta il conflitto, innescando una escalation militare, come alcuni pensano. Al contrario, invece, lo contiene (come può) nel suo tragico dilagare. Pertanto, non si può essere contrari all’invio di aiuti militari, con la motivazione che così si alimenterebbe la guerra, che certo diversamente si indebolirebbe o finirebbe, ma semplicemente per il dilagare di una situazione vicina al genocidio, lasciando morire o ferire chi forse si poteva salvare. Si potrebbe prospettare qui anche la questione della scelta di resa, quando cioè le effettive capacità di difesa sono di fatto esaurite o non siano più presenti.

Ci si domanda, cioè, se sia giusto continuare nella lotta di contrasto, quando questa è diventata solo simbolica e per malinteso amor di patria o di nazione si estremizzano le vicende fino a condurle alla morte certa, in una resistenza che non ha più alcun senso. La resa potrebbe essere auspicabilmente anche patteggiata e non semplicemente senza condizioni e senza garanzie. Si prospetta pure la domanda sulla sua effettiva praticabilità, e sulla sua efficace capacità di garantire situazioni più positive delle attuali. In altre parole, è difficile chiedere di rinunciare alla lotta per la propria libertà e per quella dei propri cari e del proprio popolo: è istintivo andare fino in fondo: è comprensibile, ma è altresì ragionevole scegliere di lottare, forse per un onore non sempre beninteso, quando la lotta non ha più alcun senso, se non un destino di morte.