I marinai disorientati della politica

Chi parla semina, chi ascolta miete”, recita un antico proverbio. Al di là del dovuto rispetto per le procedure democratiche, le tanto attese elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria non hanno reali vincitori, bensì una sola autentica sconfitta: la civiltà del dialogo. Concorrere a guidare il governo di una nazione o di una amministrazione locale non equivale ad acquistare un biglietto della lotteria. Il premio finale non è un tesoro di cui poter usufruire ma è un cumulo di responsabilità al quale corrispondere. Per questo, da prete di strada, posso testimoniare che tra gli elettori di ogni schieramento non ho respirato alcuna atmosfera di vera gratificazione, come se affiorasse tra la gente la consapevolezza delle ferite provocate dall’ennesima campagna elettorale lacerante. In Italia, lo sappiamo bene, c’è sempre qualche appuntamento alle urne che, ai vari livelli, divide l’opinione pubblica e infiamma il dibattito politico. L’effetto è quello sconfortante di assistere continuamente a piccole vittorie di Pirro, nelle quali chi ottiene una manciata di voti in più conquista in sorte la poco invidiabile condizione di dover governare su qualche maceria, subito condizionato da un corpo sociale spezzato in due: da un lato i suoi sostenitori ben poco motivati, dall’altro gli avversari che non si sentono rappresentati dal candidato che per mesi e mesi hanno messo metaforicamente fuori dal recinto del dialogo.

E qui sta l’errore diabolico. Una disastrosa, e per tutti, controproducente sottrazione di identità. Non riconoscere la legittimità del proprio avversario, anzi demonizzarlo e non ritenerlo un credibile interlocutore, fa il gioco degli “sfascisti”, la cui unica ideologia è gettare la croce, a destra come a sinistra, su chiunque si proponga di affrontare croniche situazioni di burocratica paralisi. Gli scienziati conoscono il fantomatico impedimento alle scoperte: si pensa che una cosa sia impossibile da fare finchè qualcuno, non sapendo quanto sia complicato agire, trova la soluzione, trasformando l’impossibile in possibile. Lo statista è questo: un sognatore con i piedi ben piantati per terra, capace di guardare all’interesse delle generazioni piuttosto che al tornaconto del momento. Il fatto che nelle varie denominazioni partitiche si faccia collezione di fuoriusciti e “scappati di casa”, lascia intendere che l’identità e la riconoscibilità della classe dirigente attuale è sempre più in crisi.

Seneca, due millenni fa aveva già previsto tutto: neppure il vento favorevole può aiutare il marinaio che non sa dove andare. Lo smarrimento sociale, politico e ideale che caratterizza le odierne forme di mobilitazione pubblica fa emergere in tutta la sua drammaticità il deficit di significato dei movimenti che non riescono a presentarsi in maniera compiuta ma, per esistere, devono sempre contrapporsi a qualcun altro. Non riescono a dire chi sono, possono solo dire chi non vogliono essere. Un atteggiamento sterile e infantile, un dire no senza la maturità di affermare ciò che si intende realizzare. Anche la scelta di simbologie anonime e prive di autonomia, denotano una patologica assenza di riferimenti credibili, come se la quantità potesse sostituire gli inesistenti contenuti.

Il Signore si commuoveva di fronte al disorientamento popolare che, in epoche come quella attuale, fa assomigliare la massa a un gregge privo di pastori, maestri, educatori, sia in ambito civile che religioso. Vediamo quanta fatica devono fare addirittura i Pontefici dell’ultimo secolo per far arrivare la loro voce alla gente, sempre più distratta e ripiegata autoreferenzialmente su se stessa. A maggior ragione, senza modelli, progetti e visuali condivise non si può manifestare un piano di miglioramento collettivo. Se non si ha chiaro dentro di sé un elevato obiettivo ideale non si può certo indicare al prossimo un fine da raggiungere congiuntamente. Noi adulti, inoltre, dovremo rispondere un giorno della nostra incapacità di trasmettere ai giovani il senso della storia. Non sappiamo insegnare a dire “noi”, e a contestualizzare ciò che si sta verificando ora, nell’alveo di un flusso temporale che ci ricolleghi alle nostre radici più profonde e nobili.

Invece di nasconderci dietro le lacune delle nuove generazioni, dovremmo tutti fare mea culpa per l’ingovernabilità, politica e morale, di un Paese che lungo i secoli è stato sinonimo di cultura e civiltà nel mondo intero, e che oggi è deriso e sottovalutato. Senza coscienza del passato, non si ha futuro. Che fine hanno fatto i valori, le idee, i pensatori, gli artisti che hanno dato lustro ad un popolo che in un biennio ha potuto celebrare il cinquecentesimo anniversario dei due più grandi geni pittorici del sapere universale (Leonardo e Raffaello)? Chissà se davanti agli smartphone, gli italiani 2.0 sono ancora capaci di ricordare chi sono stati e chi rischiano di non essere mai più.