L’eredità ecologista e ambientalista di don Luigi Sturzo

Per don Luigi Sturzo la questione meridionale come questione nazionale implica una attenzione particolare alla tutela dell’ambiente attraverso una politica economica che favorisca tutta una serie di interventi attivi dell’uomo: «II più grave problema da affrontare, e non solamente problema meridionale, ma di speciale urgenza per le regioni del sud, isole comprese, è quello della sistemazione montana, rinsaldamento del suolo, imbrigliamento, rimboschimento, regolarizzazione delle acque, in una parola ricordarsi che l’agricoltura comincia dalla montagna per arrivare alla pianura e viceversa». Sturzo riteneva che bisognasse rovesciare il modello basato sulle bonifiche e sull’eliminazione delle aree paludose in pianura e puntare sulla bonifica montana. Dimenticando la montagna «bastava un alluvione a far perdere gran parte dei lavori fatti e delle piantagioni iniziate. È un lavoro di Sisifo, nel quale si perde fatica e denaro».
E «si sono seguiti – scriveva Sturzo – metodi empirici sotto l’assillo di dar lavoro ai disoccupati ovvero sotto la spinta dei proprietari desiderosi di godersi i miglioramenti finanziati, trascurando la montagna che paga solo a lunga o a lunghissima scadenza; spesso non paga affatto, ma assicura la vita». E osservava nel 1950: «Primo punto, il più urgente, il più inderogabile è quello di fermare gli scoscendimenti, le erosioni e gli slittamenti delle zone più compromesse. Non si tratta di lavori di una sola stagione o di un solo anno; si tratta di lavori di molti anni, cure lunghe e penose, lavori seri e in certe zone di grande portata. E’ la prima volta che in Italia si parla di piano decennale per i bacini montani; è un progresso enorme il solo parlarne».

Nel sottofondo del ragionamento sturziano c’è una visione religiosa che guarda la futuro e non sia aspetta «tutto e subito», secondo lo slogan proprio dì un certo materialismo di stampo consumista. La necessità di affrontare la sistemazione montana, dipendeva da tre ordini di interessi urgenti, secondo Sturzo: «Prima lo slittamento ed erosione del suolo, che, a parte il problema della zone abitate, diminuisce costantemente la superficie coltivabile e il valore produttivo dei terreni a pendio; secondo, la utilizzazione delle acque per impianti idro-elettrici o per irrigazione, o per i due scopi insieme; terzo la prevenzione dei danni delle acque torrenziali specie nelle zone bonificate, colline, pianure e valli sottostanti».

Non c’è l’idillio di chi vuole lasciare la natura intatta e incontaminata dall’intervento umano, ma proposte razionali per aumentare la superficie coltivabile, il valore produttivo dei terreni, l’utilizzazione ottimale delle acque ad uso agricolo o industriale. La questione meridionale implicava dunque per Sturzo il riordino del sistema montano e questo era prioritario rispetto alla bonifica integrale e alla proprietà contadina. Egli non si faceva illusioni: i fondi del piano Marshall potevano servire, ma solo per incominciare. Il resto doveva farlo lo Stato: «Se si trattasse dei parassiti che fanno capo all’IRI e delle imprese meccaniche dissestate — ironizzava Sturzo —, il Tesoro troverebbe i denari in quattro e quattr’otto. Si tratta di foreste; che ne sanno i ragionieri del Tesoro delle nostre foreste? Non le hanno mai viste neppure sulla carta geografica. E poi, gli alberi non fanno sciopero, al più si prendono certe malattie, come quella dell’inchiostro che ha rovinato castagneti che si lasciano morire».

Lo Stato con la sua incapacità di acquisire la coscienza della necessità prioritaria della conservazione dell’ambiente forestale e delle acque, favorisce una mentalità egoista che consuma in maniera eccessiva e disordinata le risorse ambientali: «l’ingordo guadagno del momento ha indotto da più di mezzo secolo alle distruzioni delle foreste, alla dilapidazione di un patrimonio sano e duraturo». Dunque il problema per Sturzo è politico, coinvolge cioè la responsabilità dell’intera classe politica e i suoi criteri di gestione dell’economia. Per favorire lo sviluppo economico del meridione e delle zone depresse Sturzo non escludeva interventi per incrementare la produzione, per sistemare le strade, per valorizzare la piccola e media proprietà, «ma — spiegava — senza la base non si bonifica la casa, senza la montagna a posto, non si avrà agricoltura sana e produttiva». Per evitare la “vendetta della montagna” non era necessario che si arrestasse la politica dello sviluppo.

Egli riteneva possibile uno sviluppo industriale equilibrato, complementare con quello agricolo, forestale, fluviale, montano. Don Luigi Sturzo affermava che per la industrializzazione del Mezzogiorno occorrevano stanziamenti per le foreste, che invece queste erano state tenute lontane dal piano economico produttivo e quindi dai finanziamenti come «cose che esistono solo nel mondo delle idee platoniche». Se fosse stato così, proseguiva, sarebbe mancato uno dei «capisaldi della industrializzazione del Mezzogiorno». Proseguiva: “Un governo che si interessasse a spendere da centoventi a centosessanta miliardi […] per un impianto siderurgico a carattere politico, oggi inutile, e sotto certi aspetti dannoso […] e poi negasse solo cento miliardi alla sistemazione montana del Mezzogiorno, sarebbe da essere dichiarato imprevidente, e da essere richiamato alle norme elementari della buona amministrazione». Esaminava, come esempio, la situazione della Calabria, dove gli stessi calabresi sembravano non avere le idee chiare su quelli che avrebbero dovuto essere gli investimenti per realizzare insediamenti industriali nella loro regione. Sturzo si rivolgeva direttamente a loro: «E non vengano a dire i calabresi che il loro Aspromonte non potrà mai essere bonificato e reso un vero tipo di centro boschivo, con essenze legnose di valore industriale, con centri pastorizi ed industrie annesse; con produzione di lane di prim’ordine. Il problema industriale è anzitutto un problema di ambiente per il commercio che se ne può sviluppare. Fino a che il commercio resta di tipo artigiano-rurale, prospererà la piccola industria del villaggio; quando si potrà sviluppare un commercio a largo respiro (e quello dei legni pregiati sarebbe per l’Italia meridionale un commercio da rifarsi ex-novo) allora la relativa industrializzazione s’imporrà. E così sarà degli altri prodotti delle montagne rivestite e rese abitabili e feraci, e non mai abbandonate all’impeto e alla corrosione delle acque, alla rapacità degli animali e alla ignoranza e imprevidenza degli abitanti dei villaggi. Il cammino è lungo; il tempo perduto non si riguadagna facilmente; ma ogni regione deve dare quel che può; ed è semplicemente antieconomico volere imporre al Mezzogiorno industrie (come quella siderurgica)”.