Il disastro creato in tutto il Medio Oriente dall’Occidente

A considerare in una prospettiva di più ampio respiro quella che è la bruciante sconfitta occidentale in Afghanistan, la cosa che salta all’occhio è questa: il disastro creato in tutto il Medioriente dall’approccio ideologico dato alla politica estera americana dai neoconservatori di un quarto di secolo fa. Il mondo diviso in civiltà destinate allo scontro, con quella cristiana (aggettivo usato in modo quanto mai improprio, in questo caso) ineluttabilmente destinata a imporsi sulle altre; come nella Terra si Mezzo del Signore degli Anelli. La Provvidenza, o la Storia, di solito però sfuggono ai progetti di noi piccoli uomini e pertanto le cose sono andate in modo molto diverso. Riflettiamo e impariamo.

Il quadro che emerge dalle ceneri di Kristol è desolante, soprattutto in una regione come quella mediorientale dove gli Usa, l’Occidente e la stessa Italia avevano faticato nel corso del secondo dopoguerra a costruire equilibri e stabilità. Tocca ricominciare da zero, con la differenza che con l’Afghanistan abbiamo dimostrato la nostra debolezza, e con la guerra in Iraq, la gestione della crisi siriana e le indecisioni verso il wahabismo abbiamo perso la nostra autorevolezza. Insomma, dobbiamo recuperare moltissimo solo per essere ammessi ai preliminari di Champions.

Tanto più che l’Afghanistan, se possibile, ha reso ancor più complicato il quadro mediorientale, dove ora quasi tutte le potenze più o meno grandi si sentiranno autorizzate a muoversi in autonomia, con il risultato di amplificare l’effetto sabbie mobili per chiunque voglia metterci piede. A veder bene, chi ha le maggiori possibilità di cambiare l’attuale situazione di isolamento internazionale è l’Iran. Premessa: non guardiamo al breve periodo, con Teheran che invia segnali di disponibilità ai Talebani. Guardiamo ai fondamentali: ayatollah e studenti islamici non son fatti per andar d’accordo. Finiranno prima o poi per litigare, se non altro perché sciiti sono gli uni, sunniti gli altri, poco prepensi al dialogo tutti e due. Questo farà dell’Iran un potenziale interlocutore degli Usa. Proprio così. Ebbe l’occasione, trent’anni fa esatti, Bill Clinton, ma non la colse. Scrisse di questa opportunità Henry Kissinger in un libro uscito nel giugno del 2001, ma a settembre ci furono le Torri Gemelle e l’idea passò in cavalleria. Chissà che questa non sia la volta buona. Certo che un presidente come Raisi non aiuta; aiuta però l’approccio di Biden alla politica estera. Staremo a vedere.

L’altro paese che potrebbe approfittare della situazione (e infatti sta già muovendosi) è la Turchia. Erdogan si muove da tempo come il nuovo aspirante Califfo, e difficilmente la cosa lo aiuterà nei rapporti con i Talebani. Ma questi quando vogliono sanno essere molto pratici, o almeno così spera Ankara. La gestione dei flussi di profughi verso l’Europa dà al governo turco (o così esso pensa) le chiavi della regione. Ma per essere centrale, la Turchia prima deve sciogliere i nodi irrisolti con (nell’ordine) Ue, Usa, Russia e anche il mondo arabo. Ci sembra un’impresa al momento superiore alle capacità di Erdogan.

All’epoca dell’altro regime talebano, quello finito nel 2001, gli unici paesi al mondo ad averne riconosciuto la legittimità erano tutti nella penisola arabica. Sauditi, omaniti e emirati uniti avevano tutto l’interesse e la necessità di contenere l’Iran creandogli una bella rogna ad est. Torneranno su queste posizioni, c’è da starne sicuri. Ne avranno problemi con gli americani? Pazienza, del resto la Storia recente dimostra che la parte più forte, nei rapporti bilaterali, non è certo Washington. Tanto più che le Paci di Abramo, concluse da Trump ma fatte proprie da Biden, disegnano una mappa degli equilibri regionali in cui anche Israele partecipa alla convention ad excludendum. Contro l’Iran.

Abbiamo appena scritto che Teheran potrebbe uscire da questo isolamento, e non ci contraddiciamo. Ci limitiamo a sottolineare come, grazie al disastro combinato dai neoconservatori e dai loro epigoni, ora gli americani devono operare delle scelte. Tutte molto dolorose. Rien ne va plus.

Tanto più che la crisi afghana apre anche alla partecipazione di protagonisti finora esclusi dalla rappresentazione. Non si tratta di Pakistan (in realtà da sempre con le mani in pasta, essendo il grande sponsor dei Talebani) o dell’India (adesso preoccupata per il buco nero che si è creati tra essa e la Russia). Si tratta di Vaticano e Cina.

Iniziamo dal Vaticano. Papa Francesco ha avuto come una delle principali cifre del suo pontificato il dialogo interreligioso, anche e in particolare con l’Islam. Adesso può vantare un patrimonio di rispettabilità e di affidabilità presso sunniti e sciiti che non ha nessun altro, al di fuori del mondo islamico. Spesso poco capito per queste sue scelte, Bergoglio inizia a raccogliere i frutti del suo coraggio. Inoltre, già una volta la sua strategia ha funzionato: tra Usa e Cuba. Mica roba da poco.

L’altro nuovo arrivo è la Cina. Attratta dalla ricchezza dei terreni afgani, di cui ha sicuramente bisogno, ma attenzione ad una cosa. La Cina è potenza millenaria, ed è tale anche perché si è sempre tenuta lontana dall’Afghanistan cimitero degli eserciti e degli imperi. L’inasprimento appena annunciato nei confronti del Tibet sta a indicare l’idea di voler essere più presente nella regione. Ma quale potrebbero essere le conseguenze di un dialogo con i Talebani sulla comunità musulmana degli Uiguri, oppressa e perseguitata da Pechino su basi razziali e religiose? Gli Uiguri sono affini, da punto di vista etnico, ad una parte consistente della società afgana. Dal punto di vista religioso a tutti gli afgani.

E allora concludiamo dicendo: la prima, grande, inattesa conseguenza della crisi afghana potrebbe essere non l’ingresso della Cina in Centrasia e di lì in Medioriente, ma del Medioriente in Cina. E allora, sai che scontro di civiltà. I neoconservatori avrebbero di che scrivere, sulle ceneri di Kristol.